La “sintesi migliore” è una bilancia. La mostrano insieme, Silvio Berlusconi seduto a destra e il delfino Guardasigilli a sinistra, sala stampa di palazzo Chigi zeppa come un uovo per la riforma «epocale». Il premier con la guancia incerottata che si scusa «per questo imbarazzo estetico», Alfano che sfodera la sua flautata retorica. La bilancia della giustizia ha i due piatti «finalmente in parità», accusa e difesa con gli stessi diritti, mica come oggi che «i due piatti sono totalmente sbilanciati, il cittadino solo e nettamente sfavorito contro giudice e pm, un accumulo di potere che va abolito». Il premier non lo dice ma è chiaro che quell’omino solo sul piatto schiacciato dal sistema giustizia è lui, «protagonista unico e insuperabile della storia dell’universo della giustizia».
Carta straccia della Costituzione con l’alibi di una «bilancia». Che può essere, come dice il ministro, la «nuova architettura» dello stato democratico «in cui il giudice sta in alto e l’avvocato e il pm sono sotto». Oppure la fine del principio di bilanciamento tra poteri dello stato. Con i 18 articoli di riforma costituzionale (il 17 precisa che «i principi della riforma non si applicano ai procedimenti penali in corso») il governo strappa quelle regole e ne prevede di nuove. Punta a dividere il corpo della magistratura e ad isolare i pubblici ministeri (articoli 3, 4 e 5 che riscrivono il 101, il 102 e il 104 della Costituzione), cioè l’accusa, i titolari dell’azione penale e i principali responsabili di tante inchieste. Nei fatti i 18 articoli creano toghe di serie A («i giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere») e di serie B (i pm titolari di «un ufficio organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario»). Mentre Alfano parla e spiega il premier fa sì con la testa e poi integra, per rendere meglio l’idea:“D’ora in poi i pubblici ministeri saranno costretti ad andare dal giudice a fare la fila col cappello in mano”.
Berlusconi cercava questa riforma dal 1994. Finora non era neppure riuscito a scriverla. Gli ha risolto il problema il “bravissimo” Alfano, persona in genere cordiale e che pure ieri per qualche attimo ha rischiato
di perdere le staffe («devo ripetere per i non udenti»). Entrambi sventolano davanti alle telecamere disegni, tabelle: la riforma costituzionale e le undici leggi ordinarie di attuazione della riforma. C’è quella che separa le carriere; una che organizza il nuovo ufficio del pm; un’altra che istituisce i due Csm (metà laici e metà togati presieduti entrambi dal Presidente della Repubblica); quella che regola i nuovi rapporti tra polizia giudiziaria e pm, non più esclusivi ma anzi filtrati dal ministro e quindi dalla politica. Le più temute sono le leggi che dovranno stabilire «i criteri dell’azione penale» che resta obbligatoria ma alcuni reati saranno perseguiti più di altri; l’inappellabilità delle sentenze di primo grado se sono di assoluzione e quella che dovrà stabilire quanto e quando le toghe dovranno risarcire gli indagati. Pm declassato e indebolito: ecco il succo della riforma. Come immagina questo paese se avesse potuto fare questa riforma vent’anni fa? Il premier non esita:«Non ci sarebbe stata Tangentopoli, né il 1994 (il primo avviso di garanzia che lo costrinse alle dimissioni, ndr), né il 1997 (quando proprio sulla giustizia fallì la Bicamerale di D’Alema, ndr), né il tentativo a cui assistiamo oggi di mettere fine a questo governo per via giudiziaria». Alfano giura che quella che ha tra le mani «non è il quinto vangelo» ma solo «una proposta» aperta a tutti i contributi. Per le toghe non ci sono dubbi: «È una riforma che non risolve nulla sul fronte urgentissimo della efficienza e della lentezza dei processi ed è solo punitiva». L’Anm non annuncia scioperi. Si vedranno il 19. Non c’è fretta. Tanto il cammino di questa riforma “epocale” prenderà almeno due anni. E poi dovrà passare il referendum popolare. Strada molto lunga. Inutile agitarsi ora.
Questo resta ancora un problema della maggioranza. Che ieri, come denuncia Donatella Ferranti (Pd) in Commissione Giustizia ha fatto un altro blitz salva-processi. Nel disegno di legge sui reati a querela (in aula a Montecitorio lunedì, lo scopo è quello di sfoltire il carico penale) è spuntato anche il reato di appropriazione indebita.
La norma prevede che il processo muore se il querelante non si presenta a processo o se il querelato
fa un’offerta economica al danneggiato.
Guarda un po’, è proprio il caso del processo Mediatrade, uno dei quattro in cui è imputato il premier e ancora in fase di udienza preliminare: in quel processo infatti Berlusconi è imputato di frode fiscale e appropriazione indebita e la parte offesa è la stessa Fininvest. Insomma, se il Cavaliere paga qualcosa a se stesso, il processo può morire.
L’Unità 11.03.11