Di simboli vive anche la politica. In tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, dove la realtà sfuma spesso nella rappresentazione e le parole sono gli strumenti di una recita. I modi, i tempi, le circostanze con i quali è stata presentata ed è stata accolta l’«epocale» riforma della giustizia ne sono un ulteriore e chiarissimo esempio. Simbolica è la vistosità del cerotto sulla guancia esibito da un presidente del Consiglio ferito, come l’apparizione dei disuguali piatti di una bilancia da equilibrare. Simbolica è la decisione di avviare un così grande cambiamento nella giustizia del nostro Paese, proprio quando Berlusconi è in procinto di affrontare una raffica di udienze in processi di grande impatto mediatico. Simbolica è, soprattutto, la scelta di procedere con una riforma costituzionale. Una via che alla radicalità del mutamento, addirittura intrepido sfidante di un tabù sacrale, quello della carta fondativa della nostra Repubblica, associa previsioni di scadenze attuative lunghe e molto incerte. Legate, molto probabilmente, alla suprema prova finale, quella di un referendum popolare.
Nonostante le prudenze dialettiche del ministro Alfano, tutte tese a dimostrare come le intenzioni governative siano esclusivamente dedicate agli interessi del cittadino comune, la simbolica squilla della «rivincita» da parte della classe politica nei confronti della magistratura è suonata nelle parole del premier. Come al solito, incapace, ma anche indisponibile, a frenare, con soverchie diplomazie verbali, la sincerità dei suoi propositi. Così, Berlusconi ha affermato che se questa riforma fosse stata già in vigore «non ci sarebbe stata Tangentopoli e l’annullamento di una classe di governo nel ’92-’93».
E’, innanzi tutto, abbastanza paradossale che il presidente del Consiglio non sia riconoscente a quel crollo della prima Repubblica che aprì la porta alla sua grande affermazione politica, lanciata proprio all’insegna di un vasto rinnovamento, non solo della classe dirigente del nostro Paese, ma delle procedure e dei costumi di quell’epoca. Come testimoniano, peraltro, le sue parole nel discorso d’insediamento del suo primo ministero, il 16 maggio 1994: «Il governo s’impegna a non mettere mai in discussione l’indipendenza dei magistrati. Questo governo è schierato dalla parte dell’opera di moralizzazione della vita pubblica intrapresa da valenti magistrati».
L’appello di Berlusconi a tutta la classe politica, anche a quella dell’opposizione, per l’affermazione del suo primato sugli altri poteri dello Stato e per la salvaguardia del suo incontrollabile esercizio di comando, al di là della concreta realizzabilità, è, poi, evidente in tante parti della riforma proposta al Parlamento. Ci sono indubbiamente ragioni che possono giustificare i sostenitori della separazione della carriere, per evitare indebite influenze della magistratura inquirente su quella giudicante. Come si può avanzare l’opportunità di ridurre le tentazioni corporative del Csm nel giudicare i colleghi colpevoli di faziosità, di corruzione o, più banalmente, di incapacità e di negligenza professionale. Ma il sintomo più evidente di questa voglia di rivincita della politica sulla magistratura è suggerito dalla formulazione della cosiddetta «obbligatorietà dell’azione penale».
La norma attuale, infatti, se, dal punto di vista formale, costringe i pm a indagini su tutte le ipotesi di reato, in pratica, lascia ai procuratori l’assoluta discrezionalità nello scegliere le priorità d’intervento. Con la riforma proposta dal ministro Alfano sarebbe invece il Parlamento e, cioè, la maggioranza che sostiene il governo, a stabilire le inchieste da privilegiare. Anche in questo caso, la riforma non si cura tanto di prescrivere come sia possibile e quanto sia possibile applicare tale criterio nella concretezza della vita reale, quella che si svolge nelle caserme della polizia, dei carabinieri e nei palazzi di giustizia. Si limita a rivendicare il diritto di supremazia della politica e il potere di escludere, nella sostanza, l’intervento di altri organi dello Stato nei campi di suo interesse. E’ questa la sirena più tentatrice per le orecchie dei parlamentari, pure quelli di una opposizione che, oggi, non governa, ma che, domani, può sperare di portare un suo leader alla guida di Palazzo Chigi. E, quindi, di poter temere le insidie di una troppo occhiuta e, magari, un po’ accanita facoltà di controllo e di sanzione da parte della magistratura. Chissà se Bersani, novello Odisseo, riuscirà, legandosi al suo banco della Camera, a resistere alla malìa di quei demoni del mare.
La Stampa 11.03.11