«Delegittimare la scuola vuol dire spaccare l’Italia». «Il governo sta attaccando ciò che rappresenta il primo grado di inclusione del Paese, il luogo dove si forma la comunità e l’identità di un popolo». La scuola maltrattata, la scuola offesa, la scuola tagliata. Eppure c’è anche la scuola nell’unità di Italia, l’Unità che non tutti vorrebbero celebrare in questi giorni. C’è la scuola assieme, ovviamente, ad altre “voci”: guerre, chiesa, fabbriche, politica, trasporti, comunicazioni di massa, mafie… Voci, che sono altri passaggi, nel bene o nel male, di un cammino contrastato e contradditorio verso l’unità e soprattutto nella costruzione di una identità comune, voci che diventano “isole tematiche” nella mostra “Fare gli Italiani. 150 anni di storia nazionale”, dal 17 marzo a Torino, alle Officine grandi riparazioni di via Castelfidardo 22, quattordicimila metri quadri di installazioni. «Ciascuna voce – spiega Giovanni De Luna, storico e curatore insieme con Walter Barberis – abbiamo cercato di interpretarla e di rappresentarla alla luce della coppia inclusione-esclusione. Alcuni esempi. La fabbrica è stata una straordinaria occasione di inclusione, perché nella fabbrica si sono incontrati migliaia di italiani, di diverse regioni, di diversi dialetti, di diversi costumi, che davanti alla loro condizione di lavoratori hanno maturato un comune sentire e un comune modo per esprimerlo. Le mafie hanno generato l’effetto opposto, separando e quindi escludendo una parte della popolazione».
Professor De Luna, in questo percorso si immagina un ruolo straordinario della scuola: a scuola si impara la lingua di tutti e si dovrebbe costruire un sistema di valori condivisi. È ancora così?
«Quello è stato e continua ad essere il ruolo della scuola pubblica in Italia. Un ruolo, appunto, straordinario. Con varianti, ovviamente. Il percorso non è mai stato lineare. Se guardiamo al presente, la crisi è evidente, ma il compito resta fondamentale. Se gli immigrati e i loro figli diventano cittadini italiani sarà per il lavoro, ma sarà allo stesso modo per la scuola: sui banchi delle elementari crescono nuove schiere di italiani e crescono grazie all’impegno a volte strenuo di migliaia di maestri. Quando ci si riferisce alla scuola pubblica questo si dovrebbe in primo luogo riconoscere: la scuola in prima linea sul fronte dell’inclusione. Che cosa sarebbe altrimenti? Dove altrimenti si costruirebbe una comunità, capace di riconoscersi in una identità. Certo tutto è difficile, le strutture scolastiche sono malandate, gli insegnanti sono sfiduciati, c’è un deficit intellettuale, i contenuti stessi possono apparire obsoleti, ma l’attacco anche da parte della politica è stato continuo. La scuola non trova schierato al fianco un governo. Ne incontra uno che tenta di delegittimarla».
Non è solo la politica. C’è anche una società con i suoi modelli culturali che “sfiducia” la scuola… «Nel senso che la scuola deve sopportare il contrasto, la concorrenza di forme comunicative più efficaci, altri circuiti di trasmissione dei saperi, altri saperi. Del resto viviamo in una condizione di emergenza culturale, non solo politica».
Forse più culturale che politica, se si interpretano i “saperi” che può affidarci la televisione, da Amici al Grande Fratello?
«Questo fa parte di una deriva, cui partecipa anche la scuola. Ma per la scuola non c’è niente di nuovo. La scuola ha subito periodici attacchi. La scuola ha vissuto e vive di alti e bassi. All’Unità d’Italia, ad esempio, venne promossa, ma in un paese afflitto dall’analfabetismo non venne favorita l’istruzione elementare, bensì quella intermedia, perché in primo luogo si voleva addestrare un ceto amministrativo e tecnico, utile al nuovo stato. Poi venne il momento della scuola elementare. Il fascismo condizionò la funzione inclusiva, che tornò alta ai tempi del centrosinistra, ai tempi di Tristano Codignola….
Che fu alla guida della politica scolastica nel Psi di Nenni e che fu tra i più battaglieri sul fronte della istituzione della scuola media unica e della stessa scuola materna statale.
«Oggi siamo al tentativo ripetuto di delegittimare la scuola…» Berlusconi dice infatti che la scuola pubblica non educa. Ma gli attacchi sono pure altri, la Lega in prima fila, in modo talvolta ambiguo. Quanto vale il dialetto rispetto a un progetto inclusivo della scuola?
«Continuo a ritenere che avesse ragione Pasolini: il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte, in un circuito virtuoso. Il problema non è aprire la scuola a una dimensione del locale. Anzi, questa apertura può costituire un momento didattico molto serio, un avvicinamento molto concreto alla realtà, un’esperienza di lettura della realtà e di confronto. Il problema è costruire attorno una cornice molto robusta dal punto di vista concettuale, che comunichi appartenenza».
Come fecero i piemontesi un secolo e mezzo fa? «Allora lo stato procedette estendendo in modo burocratico amministrativo il modello piemontese. Ma non si può demonizzare questa scelta, che ci diede un sillabario unico, ma anche una lingua per parlarsi da nord a sud e un sistema di valori. In quel modo si formò un’idea di cittadinanza. I nostri sussidiari saranno stati retorici, ma accompagnarono questo paese verso il benessere, facendoci capire di partecipare tutti alla stessa impresa».
Una scuola federale ha una ragione?
«La scuola federale mi sembra una stupidaggine, che pretende chi, come la Lega di Bossi, ha la sua idea di cittadinanza, inaccettabile peraltro: una cittadinanza che accantona i valori e si fonda sugli interessi».
L’Unità 10.03.11