L’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia si avvicina in un clima politico rovente, da «curva Sud»: il tifo è a prescindere, prevalgono l’invettiva e l’insulto reciproco. Il senso di appartenenza esiste, ma è di (una) parte. Il confronto pacato non trova spazio. Così, arriviamo a celebrare l’Unità dis-uniti, in ordine sparso.
Tuttavia, esiste anche un altro Paese, diverso, fatto di tante formiche operose che costruiscono reti di relazione economiche, sociali e istituzionali. Che raggiungono risultati importanti, ma collocato in un cono d’ombra: non viene visto e non trova una rappresentazione. Dunque, se non ha rappresentazione è come se non esistesse. La rottura di questo circuito perverso aiuterebbe a costruire un’idea e un progetto dell’Italia volti al futuro di cui si avverte un forte bisogno.
È una missione impossibile? La risposta diventa positiva se proviamo ad alzare lo sguardo rispetto alle vicende contingenti. Se alzassimo l’obiettivo della nostra visione, paradossalmente, abbassando gli occhi sui territori locali, sul sistema delle imprese, sui mondi del volontariato. Che vivono di una «normale eccezionalità» in cui costruiscono reti di coesione economiche, sociali e istituzionali. Gli esempi non mancano. Si pensi all’impegno che i titolari delle Pmi hanno profuso assieme alle organizzazioni sindacali per contenere il più possibile l’emorragia dei dipendenti, grazie anche all’allargamento degli ammortizzatori sociali messo in campo dal governo. Perché queste imprese sono fortemente radicate sul territorio: i titolari sono nella maggioranza dei casi (il 58%, secondo una ricerca Fondazione Nord Est-Unicredit sugli imprenditori in Italia) ex operai che hanno assunto a loro volta ex colleghi, parenti, vicini di casa. Esiste un legame, una reciprocità forte fra l’impresa e la comunità locale, al punto che un imprenditore artigiano del bresciano, raccontando in un’assemblea di avere messo in cassa integrazione alcuni dipendenti, si esprimeva dicendo «mi vergogno, ma ho dovuto farlo». Per non raccontare dei casi di cooperative in cui gli stessi lavoratori, prim’ancora che la dirigenza lo proponesse, si sono ridistribuiti gli orari di lavoro e diminuiti gli straordinari, in modo tale che nessuno rimanesse senza lavoro (Fondazione Nord-Est-Legacoop).
Ma possiamo osservare anche comportamenti innovativi, come nel caso del «contratto di rete» fra le imprese dell’automotive, primo in Italia promosso da Unindustria Bologna e che si sta progressivamente allargando. Oggi la competizione internazionale richiede al sistema produttivo, soprattutto quello delle Pmi, di operare nel senso di una maggiore integrazione della propria filiera. Bisogna arrivare più velocemente al cliente finale, coglierne i bisogni, razionalizzando i costi e migliorando l’efficienza, aumentando la produttività. Quindi, tutti gli attori della filiera produttiva devono allinearsi ai medesimi obiettivi, devono condividerli facendo sistema. Ma fanno sistema da diversi anni anche le categorie economiche del bergamasco attraverso un coordinamento interassociativo che ha anticipato di alcuni anni l’avvio del cosiddetto Patto di Capranica fra le associazioni degli artigiani e del commercio. E che da qualche mese ha visto avviarsi un analogo percorso fra le sigle del mondo della cooperazione nazionale.
Oggi, sempre di più la domanda di rappresentanza richiede una maggiore sinergia per offrire risposte complesse a domande di tutela articolate. Come non ricordare, poi, il ruolo di coesione e sostegno svolto dal mondo del volontariato e della cooperazione sociale. Nel novembre scorso l’alluvione sconvolge i territori e le imprese di alcune province del Veneto. I mezzi di comunicazione e le istituzioni percepiscono la gravità della situazione solo dopo diversi giorni. Ma quando arrivano trovano un contesto già tornato alla normalità, grazie all’azione delle istituzioni locali, della protezione civile, vigili del fuoco, ma soprattutto dei singoli cittadini, dei volontari e degli immigrati. Tutti assieme. Ma il fare sistema non è una prerogativa del mondo privato. Come nel caso dei Comuni del Camposampierese della provincia di Padova che si consorziano per una governance migliore e più efficace dei servizi. Calano le risorse pubbliche da destinare ai servizi e i piccoli comuni non riescono più a dare risposte ai bisogni crescenti della popolazione. In più, fra comuni limitrofi il rischio di duplicazione di servizi costosi è elevato. Di qui, la sperimentazione di integrare e razionalizzare servizi socio-assistenziali e uffici per ottimizzare e dare maggiore efficacia all’azione pubblica. E come non rammentare il noto tribunale di Bolzano che, a normativa vigente, ha saputo dare efficienza alla propria struttura.
Dunque, l’Italia vista dal basso, dai territori, dai sistemi locali, delinea un’immagine diversa di sé: più pragmatica, alla ricerca di soluzioni innovative. È la capacità degli attori sociali, economici e anche pubblici di individuare obiettivi e ricercare progettualità condivise, talvolta anche ridimensionando le aspettative e le peculiarità dei singoli a favore della comunità e della collettività.
Il presidente Ciampi, prima, e Napolitano, poi, hanno ben colto questi aspetti avviando un viaggio nei comuni e nelle province, valorizzandone le specificità. Perché hanno individuato nella molteplicità e nelle differenze un elemento di unicità e unità del nostro Paese. Talvolta, sarebbe utile ascoltare e studiare le soluzioni realizzate nei contesti locali, per offrire soluzioni utili a tutto il Paese. Non si tratta di assumere una visione minimalista, bensì realista e flessibile. Il percorso da compiere è ancora lungo e richiede un’opera di cambiamento culturale diffusa. Ma un’idea e una narrazione dell’Italia del futuro deve prendere le mosse dai territori, dalle differenze e dalle sue dis-unità. Facendo diventare complementari le tante Italie che formano l’Italia.
*Direttore della Fondazione Nord Est di Venezia
da www.lastampa.it