Peggiorano ancora i dati su retribuzioni, occupazione e stabilità. Raddoppia il fenomeno di chi non ha neppure un contratto. I laureati di famiglie operaie guadagnano quasi duecento euro al mese in meno dei colleghi di estrazione borghese. I risultati del rapporto di AlmaLaurea su 400mila giovani. La crisi non smette di far male. Anche a chi, come i laureati, possiede più strumenti culturali e professionali per reagire ai mutamenti. I numeri parlano chiaro. Gli stipendi perdono ancora potere d’acquisto, le chance di trovare un posto si riducono ulteriormente e i contratti precari sono ormai routine. Intanto risuonano altri due campanelli d’allarme: il lavoro nero raddoppia e la classe sociale di provenienza non smette di condizionare i destini dei giovani. Tanto che tra i “figli” si perpetuano le differenze e le disparità dei “padri”, anche laddove non avrebbero più alcuna giustificazione. Sia in termini di euro guadagnati che di riconoscimenti e identificazione nel lavoro.
A richiamare l’attenzione sulla questione giovanile, è il nuovo rapporto di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei neolaureati. Presentata oggi a Roma presso la sede della Crui, l’indagine ha coinvolto 400 mila ragazzi e, con una gran mole di dati, invita operatori e politici a considerare con attenzione la necessità di approntare strumenti per evitare che una risorsa preziosa vada dissipata con inevitabili danni per l’intero Paese. I risultati saranno discussi anche nell’ambito della conferenza internazionale sul capitale umano e l’occupazione che a Bologna, tra giovedì e venerdì prossimi, vedrà confrontarsi decisori, responsabili d’azienda, operatori e esperti del settore.
La disoccupazione non smette di crescere. Sia che si esca con la “triennale”,
sia che lo si faccia con la specialistica, i senza lavoro continuano ad aumentare. Oggi, il 16,2 per cento dei laureati “brevi” è disoccupato a un anno dal conseguimento del titolo di studio. Nel 2008 erano l’11 per cento. Dalla specialistica non arrivano numero migliori. L’involuzione, semmai, è ancora più accentuata: i disoccupati quest’anno sono il 17,7 per cento (erano il 10,8 per cento). Certo è che comunque i laureati nel tempo dimostrano performance migliori dei diplomati. Durante l’intera vita lavorativa, hanno un tasso di occupazione superiore di undici punti percentuali a quella dei diplomati che, senza dubbio, stanno pagando più dolorosamente la crisi. Ad ogni modo, dice l’indagine, diminuisce anche la quota dei laureati che risultano impiegati cinque anni dopo aver conseguito il titolo. In questo caso il campione osservato è quello dei laureati pre-riforma. Tra il 2005 e il 2010 la contrazione è di quasi cinque punti percentuali. Cinque anni fa erano il 90,3 per cento quelli che erano riusciti a trovare impiego. Oggi sono l’85,6 per cento.
TABELLA I LAUREATI E LA DISOCCUPAZIONE
Economia meglio, biologia peggio. A tre anni dalla laurea, il 75 per cento dei laureati con la specialistica hanno un impiego mentre il 13 per cento è ancora senza e ne sta cercando uno. Tra le diverse facoltà le disparità sono evidenti e indicative, semmai ce ne fosse ancora bisogno, della diversa accoglienza che il mercato dà loro a seconda dei percorsi di studio. I picchi interessano, oltre a chi esce dal percorso medico e professioni sanitarie (98 per cento), i laureati del gruppo economico-statistico, di architettura (entrambi quasi 86 per cento) e quelli di ingegneria (84,7 per cento). All’estremo opposto, i laureati nel gruppo geo-biologico (47,1 per cento), chimico-farmaceutico (48,5 per cento), giuridico (50,2 per cento) e scientifico (62,3 per cento).
Ancora più incertezza. Il peggioramento delle condizioni contrattuali dei primi impieghi è comunque costante. I contratti atipici oggi interessano più di quattro laureati “brevi” su dieci. Allo stesso tempo i rapporti di lavoro stabili sono passati dal 50,7 per cento al 46,2. Peggiori sono anche le performance, a un anno dalla laurea, di chi consegue la specialistica. Quest’anno hanno un contratto atipico il 46,4 per cento (erano il 41,4 nel 2008) mentre solo il 35 per cento è riuscito a strappare un contratto stabile. Per chi è uscito dagli atenei cinque anni fa, dato questo che riguarda in particolare i laureati pre-riforma, la stabilità dell’occupazione coinvolge il 71 per cento dei casi.
Il lavoro nero. La cifra che desta più di qualche preoccupazione è quella relativa alla crescita dei “senza contratto”. Sempre più giovani laureati lavorano senza avere avuto la possibilità di firmare un contratto. Con il conseguente venire meno di quei diritti che spettano a ogni lavoratore. Niente contributi e niente assicurazione, tanto per fare un esempio. Tra chi ha concluso la specialistica, i laureati occupati senza contratto sono quest’anno il 7 per cento (il doppio di quanti erano nel 2008). Sono aumentati anche i laureati “brevi”: oggi sono costretti a lavorare in nero il 6 per cento (erano il 3,8 per cento). Tra gli specialistici a ciclo unico, la quota è quasi dell’11 per cento.
Il continuo arretramento degli stipendi. I guadagni perdono ancora di peso e la paga smette, ancor di più, di essere una retribuzione capace di pagare quello che serve per una vita da adulto. In questi anni lo stipendio dei laureati “brevi”, in termini reali, è scesa del 5 per cento. Andamento ancora più penalizzante per chi porta a compimento la specialistica. Per loro la caduta del potere di acquisto è stata del 10 per cento. E’ chiaro che a chi entra nel mondo del lavoro, a ragione o a torto, le imprese stanno dando sempre meno. Ma anche chi ha alle spalle un po’ di anni di esperienza vede peggiorare la propria condizione. A cinque anni dalla laurea, il potere d’acquisto delle retribuzioni dei laureati con un impiego è diminuito, in cinque anni, di quasi il dieci per cento.
TABELLE GLI STIPENDI E LA CLASSE SOCIALE / LE RETRIBUZIONI PER LE DIVERSE DISCIPLINE
La società immobile. C’è poi la questione dell’ascensore sociale. O meglio della sua assenza. Chi merita di salire i gradini delle classi sociali e realizzare ambizioni, in Italia ci riesce meno che altrove. A cinque anni dal titolo, dicono gli autori dell’indagine, il 73 per cento dei laureati di estrazione borghese ha un contratto stabile. Riesce lo stesso solo al 68 per cento dei loro coetanei di famiglie operaie. Simili disparità si ripropongono nell’ambito retributivo. I laureati della borghesia, dopo cinque anni, hanno uno stipendio di 1.404 euro mentre per chi ha un’estrazione operaia la retribuzione mensile si ferma a 1.249 euro.
La fuga dei cervelli. Non si arresta così il fenomeno di chi, volente o nolente, lascia l’Italia. Quest’anno tra i laureati specialistici quelli che hanno scelto di lavorare all’estero sono il 4,5 per cento. Anche qui, in qualche modo, si ripropone il tema della famiglia. E dell’aiuto, in diverse forme, che essa può dare. La maggior parte di loro proviene da famiglie economicamente favorite, risiede e ha studiato al Nord. E già durante l’università ha avuto esperienze di studio al di fuori del proprio Paese. Fuori dall’Italia spesso le condizioni sono migliori. Ad un anno dalla laurea, ha un lavoro stabile il 48% degli italiani occupati all’estero, 14 punti percentuali in più rispetto al complesso degli specialistici italiani occupati in patria. Inoltre, gli specialistici che si sono trasferiti all’estero guadagnano 1.568 euro. Chi rimane si deve accontentare di 1.054 euro.
La Commissione Europea ha fissato al 40 per cento l’obiettivo strategico della quota di laureati per la popolazione di età tra 30 e 34 anni. Da raggiungere entro il 2020. Oggi in Italia non siamo neppure alla metà, mentre poca attenzione viene riservata anche agli investimenti nell’istruzione e nella ricerca. Sbaglia, ci dice l’Europa, chi crede che il destino dei laureati appartenga solo a loro e non a quello di tutto una nazione.
La Repubblica 07.03.11
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“Meno iscritti e laureati nell’Università pubblica”, di Piera Matteucci
Aumentano gli studenti delle strutture private
Sono sempre di meno i ragazzi che, dopo il diploma, decidono di proseguire gli studi. I cali più significativi al Sud e al Centro, tiene bene il Nord d’Italia. Le strutture ‘non statali’ crescono del 2%. Cala il numero di iscritti nelle facoltà pubbliche italiane e, di conseguenza, scende il numero di ‘dottori’ laureati. Stando ai dati resi noti dal Consiglio universitario nazionale (CUN), nell’ultimo anno le immatricolazioni hanno subito una diminuzione del 5%, con 3.986 nuovi iscritti in meno rispetto al 2009. Se, poi, si guarda agli ultimi quattro anni, la percentuale dei nuovi ingressi negli atenei è scesa del 9,2%, con ben 26 mila immatricolazioni in meno. Eppure, il numero di studenti che ha raggiunto il diploma è aumentato nell’ultimo anno dello 0,9%. In controtendenza gli istituti privati che nel 2010 hanno registrato il 2% in più di immatricolazioni, coprendo il 6,6% dei nuovi iscritti totali in Italia.
Meno iscritti al Centro e al Sud. La tendenza negativa si è fatta sentire in tutta la Penisola, ma a soffrire di più sono state le Università del Sud (-6,9%) e del Centro Italia (-5,4%). Il Nord tiene meglio, con un calo dello 0,5% per il Nord ovest e del 3,2% per il Nord est. A risentire di più della crisi delle iscrizioni sono i piccoli atenei, ma anche quelli medi accuasano il colpo. Meglio se la cavano i mega atenei (quelli con più di 40 mila iscritti) che assorbono, rispetto all’anno passato, un maggior numero di iscrizioni passando dal 42,4% al 42,8% del totale degli immatricolati.
Perdono terreno le facoltà umanistiche, cresce l’area scientifica. Per quanto riguarda le scelte dei nuovi iscritti, sono le facoltà
scientifiche a ottenere le maggiori preferenze, assorbendo nel 2010 il 33,5% delle immatricolazioni contro il 32,6% del 2009. Le facoltà umanistriche perdono terreno (con il 16,8% delle immatricolazioni contro il 17,1 dell’anno prima) e quelle sociali (37,8% nel 2010, 38,4% nel 2009). Stabili le lauree sanitarie, anche perché l’ingresso è a numero fisso. Vanno controcorrente rispetto a questi dati gli iscritti ai politecnici, che vedono aumentare, rispetto al 2007, la percentuale sugli iscritti totali dal 4,4% al 5,1%.
Più iscritti nelle Università ‘non statali’. Non sembrano risentire di questa crisi delle iscrizioni le strutture private e gli atenei di Enna, Aosta e Bolzano. Nel 2010, infatti, hanno segnato +2% di neoiscritti, una percentuale che consente loro di passare negli ultimi quattro anni dal 6,1% al 6,6% delle immatricolazioni totali. Se, però, si guarda un po’ più indietro, anche le strutture non statali rispettp al 2007 hanno visto un calo dello 0,8%.
“L’università pubblica italiana si contrae, oggi abbiamo meno studenti e quindi avremo meno laureati. Questo è certamente un grave danno anche di fronte ad un presente e soprattutto ad un futuro basati sulla conoscenza dove la capacità d’innovare è diventata motivo di sopravvivenza per i paesi industrializzati – commenta Andrea Lenzi, presidente del CUN -. Di fronte a questa crisi della vocazione universitaria devono essere messi in campo degli strumenti nuovi e più incisivi che affrontino, oltre al consueto problema del diritto allo studio, anche il tema della scelta consapevole del proprio futuro. Il CUN continuerà a svolgere il suo ruolo di stimolo e di proposizione nei confronti del Ministero e gli Atenei perché svolgano delle politiche volte a dare un corretto orientamento ai giovani con cui decidere consapevolmente dove proseguire gli studi dopo la maturità e per prevenire il fenomeno degli abbandoni. In un momento di riduzione degli studenti che si iscrivono nei nostri atenei si deve fare il massimo possibile in modo recuperare la perdita di immatricolazioni a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni” conclude Andrea Lenzi.
La Repubblica 07.03.11