Nell’ultimo trentennio, le politiche assistenziali non sono mai entrate fra le priorità dell’agenda politica della nostra Repubblica, con l’esclusione del periodo a cavallo del secolo, caratterizzato dalla sperimentazione del reddito minimo di inserimento e dall’introduzione della Legge 328/2000, e del biennio di governo del centro-sinistra della scorsa legislatura.
Paradigmatiche sono l’assenza in Italia di uno schema generale di reddito minimo (condivisa, nella UE, con la sola Ungheria) e la mancata definizione a livello nazionale, nel settore dell’assistenza, dei livelli essenziali delle prestazioni, delle figure professionali, di un sistema informativo, mancanze che hanno provocato una elevata frammentazione, con alcune regioni che hanno cercato di inventarsi qualcosa e altre nelle quali la rete dei servizi sociali, di fatto, non è mai partita (cfr. www.nelmerito.com , 4 febbraio 2011).
Da quest’anno, però, la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente. Vittima collaterale della crisi e del federalismo, vaso di coccio fra i vasi di ferro della sanità, della previdenza, degli interventi sulla cassa integrazione, il sistema assistenziale rischia nei prossimi anni di essere cancellato in buona parte del paese, come effetto dell’azzeramento dei finanziamenti nazionali al sociale, della più complessiva riduzione dei trasferimenti a regioni e enti locali e dell’esclusione delle politiche assistenziali dai decreti attuativi del federalismo.
Per quanto riguarda il finanziamento della spesa sociale, si salvano le prestazioni monetarie associate a diritti soggettivi, come gli assegni sociali, le invalidità civili, gli assegni di maternità e al nucleo con almeno tre figli. Ma, per l’erogazione di servizi, dal recupero dei tossicodipendenti, al trasporto dei disabili, dall’integrazione dei migranti ai servizi per i minori, dagli asili nido ai servizi di prevenzione e assistenza sociale, per finire ai servizi per non autosufficienti, le prospettive sono meste: la Legge di stabilità per il 2011 ha quasi azzerato i trasferimenti sociali alle regioni. Il Fondo per le politiche sociali, storicamente la maggiore fonte di finanziamento nazionale, è stato inizialmente quasi azzerato (salvaguardando solo i fondi gestiti direttamente dal Ministero del lavoro) e solo la protesta delle regioni ha portato ad aggiungere, per il solo 2011, 200 milioni (vale la pena ricordare che nel 2007 il Fondo trasferiva alle regioni un miliardo e ancora nel 2010, nonostante i tagli, 435 milioni). Il Fondo per le non-autosufficienze (400 milioni trasferiti alle regioni nel 2010) non è stato rifinanziato (la pressione dei malati ha poi indotto a stanziare fino a 100 milioni, per il solo 2011, ma destinati esclusivamente ai malati di SLA). Sorte analoga ha colpito gli altri fondi: il Fondo per la famiglia si è ridotto dai 174 milioni del 2010 a 51 milioni nel 2011; il Fondo per le politiche giovanili da 81 milioni a 13 milioni, il Fondo affitti da 141 milioni a 33 milioni; il Fondo per il diritto allo studio, che ammontava a 264 milioni nel 2009, ridottisi a 99 milioni nel 2010, avrebbe dovuto ridursi a 25 milioni nel 2011, somma aumentata di 100 milioni, per il solo 2011, in sede di approvazione della Legge; il Fondo per la gratuità dei libri nella scuola dell’obbligo (103 milioni nel 2010) inizialmente risultava azzerato e solo successivamente si è provveduto, per il solo 2011, con 100 milioni, attingendo ad uno stanziamento di 350 milioni su cui insiste però, tra l’altro, anche il finanziamento degli LSU della scuola, che rischia di assorbirlo interamente.
Se il finanziamento nazionale delle politiche sociali viene meno, vero è anche che esso contribuiva con una quota attorno al 20% della spesa sociale decentrata e che regioni e comuni, insieme agli stessi utenti, già finanziavano con risorse proprie buona parte dei servizi. D’altra parte, tale dato medio rappresenta una realtà fortemente differenziata a livello nazionale, con alcune aree dipendenti molto più di altre dai finanziamenti nazionali. In ogni caso, anche quelle meno dipendenti troveranno dal 2011 oltremodo difficoltoso compensare i tagli nei trasferimenti sociali, stante che questi si accompagnano all’ulteriore diminuzione dei trasferimenti a carattere generale alle regioni e agli enti locali. Basti qui ricordare che la manovra correttiva 2011-2012 (DL 78/2010) ha comportato tagli complessivi nel biennio per 8,5 miliardi ai trasferimenti alle regioni a statuto ordinario (al netto della spesa sanitaria), per 4 miliardi ai comuni e per 800 milioni alle province.
L’azzeramento dei finanziamenti nazionali alle politiche sociali potrebbe anche rientrare in una specifica strategia di attuazione del federalismo. Da un lato, è, infatti, certamente vero che l’art. 117 attribuisce alla competenza esclusiva delle regioni la definizione delle politiche sociali, salvo che per l’individuazione dei livelli essenziali (LEP) e che l’art. 119 richiede che regioni ed enti locali siano messi in condizioni di finanziare integralmente le proprie attività. Dall’altro, è, però, evidente che l’attuazione del federalismo fiscale riguarderà soprattutto la sanità, mentre per l’assistenza si rinvia a successivi decreti. In Conferenza unificata lo scorso 16 dicembre, le Regioni hanno, sia pur faticosamente, strappato al governo l’impegno a definire e finanziare, almeno, livelli minimi di servizio da erogare; ma in quella sede si faceva riferimento al settore sanitario e vi è da dubitare che anche un’eventuale applicazione del principio all’ambito dell’assistenza sociale, stante il vincolo sulle risorse, possa portare a qualcosa più che le enunciazioni molto generali già contenute nell’art. 22 della legge 328. In effetti, se la procedura logica vorrebbe che si identificassero i LEP in ambito sociale, si stimassero i relativi costi standard ai sensi della Legge 42 e, conseguentemente, si devolvessero alle regioni fonti adeguate al loro finanziamento, quello che sembra delinearsi è radicalmente diverso. Non si identificano i LEP, si rinvia l’attuazione del federalismo e, nel frattempo, si azzera il finanziamento nazionale, col risultato che, alla fine, non vi sarà bisogno di devolvere alcunché alle regioni. Queste ultime potranno fare quello che vogliono, ma interamente con risorse proprie e nel contesto delle ristrettezze economiche sopra descritto.
Di fatto, per l’assistenza siamo, dunque, tornati all’anno zero. Rinviati sine die i LEP, esauriti i finanziamenti nazionali, lettera morta la 328, ciascuna regione lasciata a sé in un contesto di gravissima scarsità di risorse, è naturale si ritorni alla concezione delle politiche sociali come beneficienza fatta ai più poveri e sfortunati. In tal senso alcune indicazioni del Libro bianco del Ministro del lavoro sul ruolo del “dono” e delle comunità di prossimità non sembrano destinate a rimanere lettera morta.
A nostro parere, occorre, invece, riprendere la costruzione di un sistema di assistenza inteso come sistema finalizzato alla realizzazione di diritti di cittadinanza, una rete strutturata, stabile e affidabile, come avviene per la previdenza e per la sanità. Certamente, il nuovo Titolo V pone forti vincoli e la rinuncia dell’autorità centrale ad occuparsi dei temi sociali negli ultimi 10 anni ha reso la situazione critica, determinando la frammentazione dei sistemi territoriali. Inoltre, e non solo in Italia, i trasferimenti assistenziali sono solitamente i primi ad essere tagliati (cfr. www.nelmerito.com, 5 novembre 2010), anche a causa del basso potere di voce di molti dei soggetti coinvolti. Non si può, tuttavia, utilizzare questa realtà per giustificare il ritiro da parte dell’autorità centrale dal ruolo di coordinamento e di definizione dei livelli minimi assegnato dalla Costituzione e l’accettazione di una visione del federalismo che segna la fine, o almeno, la messa in congelatore per i prossimi anni, di un qualunque sistema di politiche assistenziali strutturato.
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