«Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company. Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella “Lettera” di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare». L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza». E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano? Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola – spiega Milani nella “Lettera ai giudici” – siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico». E Rodari, recensendo “Lettera a una professoressa” quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici». Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi per mano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!
Il Manifesto 06.03.11