In silenzio, senza che quasi nessuno se ne accorgesse, lo scorso anno i turisti cinesi hanno speso in Italia più di americani e giapponesi, nostri storici visitatori. Un milione di persone, ognuna delle quali ha lasciato qui, in media, 869 euro. A casa, o in giro nel resto del mondo, sono rimasti gli altri 249 milioni di cinesi che hanno raggiunto il benessere e un potere d’acquisto paragonabile a quello della classe media europea.
Un giacimento su cui un’Italia che fatica a far camminare la propria economia dovrebbe buttarsi senza esitazioni. Invece non ho mai sentito un solo minuto di dibattito politico in cui si discutesse di questa opportunità, non ho visto nessuna agenda governativa che mettesse in cima alle priorità la costruzione di un sistema accogliente per chi vola da Pechino o da Shanghai e proporre di far studiare il mandarino nelle scuole sembra un esotismo fine a se stesso.
Anzi, a dire la verità, il nostro sistema i cinesi continua a guardarli con lenti vecchie e superate, considerandoli ancora potenziali clandestini che vogliono entrare in Italia per nascondersi poi a Napoli o a Prato a fare borse contraffatte o golfini. Tanto che all’ambasciata cinese a Roma mostrano parecchio disagio quando raccontano come i loro connazionali che chiedono un visto turistico per volare a Milano a fare shopping siano costretti a lunghe attese nonostante abbiano biglietti di andata e ritorno in business class e prenotazioni a cinque stelle. La conseguenza è che la maggior parte di loro sceglie poi di puntare su Parigi, Londra o Francoforte, destinazioni per le quali non solo è più facile ottenere il visto ma dove l’accoglienza (come ci racconta Marco Alfieri nell’inchiesta che pubblichiamo oggi) è costruita su misura per chi arriva dalla Cina.
Questa storia dei turisti che superano la Grande Muraglia e sbarcano in Europa affamati di borse, scarpe e orologi (rigorosamente originali) è il paradigma di come l’Italia debba imparare ad essere più elastica e a guardare al mondo che ci circonda con occhi nuovi. Mentre noi ci culliamo nei nostri stereotipi il panorama intorno cambia a una velocità incredibile, tanto che la Ferrari per presentare un suo nuovo modello punta su Shanghai e Prada sceglie di quotarsi in Borsa a Hong Kong e non a Milano.
Ma il salto culturale a cui siamo chiamati, se vogliamo entrare da protagonisti nelle rotte del nuovo turismo mondiale, non è solo quello di comprendere che cinesi, russi, ma anche brasiliani e indiani quando si presentano oggi alle nostre frontiere possono essere una grande opportunità e non per forza motivo d’allarme, ma è anche quello di capire cosa ci chiedono.
I nuovi turisti quando scelgono l’Italia non hanno in testa gli Uffizi o la Cappella degli Scrovegni (fanno eccezione il Colosseo, la Torre di Pisa e le gondole veneziane), non cercano l’archeologia o le Chiese barocche ma la nostra moda, il nostro design e il nostro vino. Hanno in testa un’altra Italia: vorrebbero venire qui a prendersi un pezzetto del nostro modo di vivere, mettersi addosso il nostro gusto, sentirsi protagonisti dell’Italian Style.
Mentre sui banconi dei bar italiani all’ora dell’aperitivo è comparso il sushi (e questo ci fa sentire molto internazionali), a Shanghai e Hong Kong i giovani di tendenza vanno a fare l’happy hour nei grandi alberghi dove si beve vino francese o italiano e sul bancone ci sono vassoi di parmigiano, gorgonzola, camembert o «talleggio». «Il vino è il nuovo tè» ho letto su una rivista cinese in lingua inglese la scorsa settimana, e la moltiplicazione delle enoteche in ogni città cinese mi ha confermato che è nato un nuovo mercato.
Sono soprattutto i trentenni e i quarantenni delle megalopoli cinesi a guidare questa rivoluzione dei costumi: il loro sogno è di sbarcare in Italia, comprarsi un abito di Zegna, scarpe di Ferragamo, borse di Gucci e Prada, giocare a golf sul Lago di Como, scommettere al casinò a Venezia e visitare cantine in Toscana o in Piemonte.
Questo pensano sia il percorso per diventare sofisticati cittadini del mondo e a pensarlo sono milioni di persone. A noi e al Made in Italy converrebbe rendere agevole questo percorso senza paure e snobismi, converrebbe avere il coraggio e la lungimiranza di abbattere quella Grande Muraglia che sta nelle nostre teste, nelle nostre burocrazie, nei nostri investimenti e nel nostro modo di pensare il turismo e il futuro del Paese.
La Stampa 06.03.11