Ogni riforma della scuola si è sempre dimenticata di introdurre una innovazione piccola ma fondamentale. Mi riferisco all’istituzione di un orto di classe, in cui dalle elementari i bambini possano fare esperimenti di coltivazione. Imparerebbero molto con poca fatica e grande divertimento, e si vaccinerebbero contro i pericoli di una vita troppo virtuale, che preoccupa giustamente pedagogisti, psicologi, neuroscienziati e genitori responsabili. Oggi più che mai occorre ripartire dalla terra come momento fondamentale di conoscenza, crescita e di autoformazione. Parlerò di tre italiani diventati grandi attraverso esperienze agricole dirette.
Molto ha imparato Cavour dalla sua esperienza di imprenditore agricolo, avviata nel 1835 e durata una dozzina d’anni, sino alla discesa in politica. Ne è teatro la vasta tenuta di Leri, nel Vercellese. Quando il padre Michele deve onorare le cariche pubbliche cui è chiamato a Torino, di Leri si deve occupare Camillo. All’inizio non è semplice passare dai salotti torinesi a un reclusorio in cui non si parlava che di riso, fieno e letame. L’apprendistato è faticoso. Poi la nuova attività lo appassiona. Nel 1841 dichiarerà che è «la più gradevole e conveniente occupazione del secolo».
La svolta avviene nel 1843, quando chiama prima come consulente poi come socio un agricoltore di grandi capacità, Giacinto Corio. Nelle lettere scambiate con lui troviamo un Cavour che specula sulla compravendita del grano, vende riso, controlla le lame dei tagliapaglia, progetta brillatoi, modifica aratri, importa vacche e maiali dall’Inghilterra, tenta incroci fra pecore merinos e pecore biellesi, discute con gli agenti e impartisce ordini. Dopo molti anni dirà di poter ascrivere a proprio merito l’introduzione del guano in Piemonte e le azioni di proselitismo per il drenaggio, oltre all’aver avviato i lavori del canale che porta il suo nome. Ovvio che nella sua azione di governo Cavour abbia ben presenti le questioni agricole. Nel 1853 vara una legge che crea l’Associazione d’Irrigazione dell’Agro Ovest Sesia per la gestione di un sistema irriguo cui tutti i proprietari sono chiamati a collaborare; organizza un catasto e si preoccupa del credito fondiario. Nell’ultimo discorso alla Camera traccia le strategie del futuro sviluppo economico del Paese, una specie di piano di sviluppo, e sottolinea l’importanza dell’istruzione professionale e tecnica.
Un altro padre della patria che ha formato se stesso sui campi (e nei vigneti) è Luigi Einaudi. Gli Einaudi venivano, come Giolitti, dalla Val Maira, e poi s’erano stabiliti a Carrù, dove Luigi nacque nel 1874, prima di trasferirsi a Dogliani. Alle sue spalle intravediamo un piccolo mondo di proprietari, di professionisti e artigiani che si fanno premura di tramandare le proprietà ricevute e le curano con amore, per consegnarle migliorate a chi verrà dopo. Appena salito sulla cattedra di Scienza delle finanze, il giovane Luigi acquista la tenuta di San Giacomo per trenta volte il suo stipendio annuo di professore, e la conduce con i suoi contadini, per decenni, spalla a spalla. Le parole chiave sono proprietà-famiglia-lavoro. L’attaccamento alla terra, la devozione alla patria e lo spirito di sacrificio: solo da qui possono germogliare quelli che egli definisce «gli Stati saldi».
Il lavoro non è mera ripetizione di pratiche arcaiche, ma qualcosa che si nutre di scienza, di tecnica, di tensione innovativa, di curiosità sperimentale e sperimentatrice, ma sempre dentro una cornice di regole rigorose. Bisogna sapere che non tutte le annate sono uguali, che la redditività è un problema di lungo periodo, di investimenti da curare con pazienza. Il reddito va reinvestito per «rinnovare i piantamenti, e fare tutti i vari lavori di conservazione e miglioramento dei terreni e delle case rustiche». Sono questi i cardini di una riflessione espressa in una lingua mirabile, di classica semplicità, sempre tesa a preservare i territori che separano la libertà dall’abdicazione e dal servilismo verso i potenti. Senza enfatizzare le mitologie della «sovranità popolare», cui troppo spesso si appellano «tutti i governi tirannici e totalitari»: come se nelle masse ci fossero equilibrio e saggezza che non si ritrovano nei singoli.
Mario Calvino, padre di Italo, nasce a Sanremo un anno dopo Einaudi, da una famiglia di mazziniani e di massoni, cultori del Risorgimento. È un personaggio multiplo cui va stretta ogni definizione: agronomo specializzato in colture tropicali, scienziato, docente, educatore, divulgatore, sociologo, missionario, pubblicista, in tempi e luoghi diversi: la Liguria d’inizio ’900, poi a Messico e Cuba, dove è chiamato per chiara fama a dirigere importanti istituzioni statali, intorno agli Anni 20 (è per questo che Italo nasce vicino all’Avana), poi di nuovo in Italia, animatore della Stazione Agricola Sperimentale Orazio Raimondo di San Remo. Schietto, appassionatissimo del suo lavoro, considerato scorbutico, magari scomodo perché parlava chiaro, non si piegava ai compromessi. Anche per lui l’agricoltura era anzitutto autocostruzione: il bravo agricoltore deve in primo luogo coltivare se stesso. È un uomo aperto all’innovazione, al progresso sociale, alla solidarietà. Vive a un’ora da Sanremo, in una zona piuttosto selvaggia. Grande camminatore, per fare apostolato all’alba prende il treno, poi si inerpica fino ai paesi più sperduti della Liguria con le tasche della giacca piene di estratti di rivista, forbici da potatore, coltelli da innesti, ràfia e spago. Per guadagnarsi la confidenza dei contadini maneggia una biscia che ha trovato per via. Promuove la costruzione delle vasche di cemento per l’accumulo d’acqua, si batte per il credito agrario e la viabilità tra poderi, insiste sulla cooperazione e l’associazionismo. Insegna tecniche di potatura e impollinazione artificiale per ottenere nuove varietà di fiori: è il padre spirituale degli ibridatori sanremesi che cresceranno decenni dopo.
Al figlio Italo, Mario e sua moglie Eva Mameli, prima donna ad avere una cattedra di Botanica, hanno trasmesso l’attitudine scientifica, classificatoria e combinatoria, il rifiuto d’ogni retorica, la forte etica civile. A questo padre ruvido, esigente con se stesso e generoso con gli altri, Italo ha dedicato uno dei suoi racconti più belli: La strada di San Giovanni.
Estratto dall’intervento che l’autore terrà oggi all’inaugurazione del 226° anno accademico dell’Accademia di Agricoltura di Torino.
La Stampa 26.02.11