Sullo sfondo delle fosse, oltre la spiaggia dei morti che seppelliscono i morti che traboccano dal cimitero di Tripoli dopo giorni di strage, si vede benissimo il Mediterraneo, la stessa acqua nella quale noi nuotiamo e l´Italia vive. Questo non è soltanto “the horror”. L´orrore assoluto che il colonnello Kurtz immaginava nella giungla del sud est asiatico concimata dall´apocalisse indocinese o l´angoscia che ci assale quando rivediamo le esecuzioni in serie compiute dai mitra degli Einsatzgruppen SS in Ucraina, che le immagini dalla spiaggia di Tripoli ci trasmettono. E´ la prossimità umana, reale, fisica ai luoghi dei nostri sentimenti e delle nostre vacanze che rendono l´infamia libica qualcosa che ci appartiene come poche altre atrocità ci sono appartenute.
La spiaggia di Tripoli non è meno o più accettabile dei massacri di massa compiuto nei boschi nebbiosi della Polonia o del Belarus, nelle risaie dei Khmer Rossi in Cambogia, nelle Ande delle stragi di Indio, nei massacri di nativi americani nel West. Ma l´incongruenza fra il luogo e l´azione ci offende con una violenza che si spera ancora sia infondata, nella possibilità che quei filmati e foto non siano veri, perché spiaggia, nella nostra immaginazione, rappresenta vacanza gioia, svago, tenerezza, in un riflesso condizionato. In lontananza, nella panoramica di una videocamera amatoriale, forse un telefonino, si intravvedono cantieri per alberghi e residenze che li stavano innalzando.
La sequenza ordinata delle fosse, scavate da parenti e amici con pignola simmetria, con rispetto della spaziature che fanno pensare al cimitero di Tripoli ormai tracimante e incapace di contenere le troppe vittime della guerra aperta da Gheddafi contro il proprio popoli, ha qualcosa di atrocemente infantile. Come le scritte dei nomi dei morti incise con stecchetti e forse con qualche verso funebre del Corano, effimere come sono questi mucchi di sabbia e queste iscrizioni che il prossimo maremoto porterà via, proprio come i castelli sulla battigia.
Ma il numero, la sfilata infinita è soffocante, eloquente. Questo è il risvolto, il risultato della faccia distorta dalla rabbia che Gheddafi ha esibito martedì sera. Eppure c´erano state illusioni, progetti, addirittura cantieri immaginati e cominciati pensando che un giorno questa spiaggia di miserabili, oggi divenuta un cimitero, potesse diventare un «resort» turistico, un villaggio vacanze.
Ci sono pochissime donne, nella folla di persone che scavano silenziosamente, senza grida di prefiche, senza gesti di disperazione, gente laboriosa come manovali e scarriolanti clandestini in un qualsiasi cantiere italiano e il sonoro è soltanto il rumore del vento nel microfono della videocamera. Si direbbe che anche tutto questo, come le farneticazioni di ogni despota arrivato alla fine, sia già stato visto e certamente è già accaduto, in Bosnia e in Kosovo, in Armenia e in Cecenia, in Cambogia e nella Spagna della Guerra Civile. Ma questa che vediamo ripresa e scavata dai becchini con la paletta era la «quarta sponda» italiana di Italo Balbo, secondo altri folli appena due generazioni or sono, è non soltanto «Mare Nostrum» colonizzato e segnato dalla romanità vera. Terra anche nostra, non estranea come le selve dei Balcani o la foresta monsonica del Vietnam, parte, tragicamente, anche della nostra storia, come l´acqua del Mediterraneo è parte del nostro vissuto e ora dei nostri incubi.
Può darsi che quelle immagini siano state diffuse per accendere lo sdegno del mondo contro il colonnello fuori di senno, anche se la tracimazione di corpi dal cimitero parla chiaro, La propaganda di guerra, perché quella libica è ormai guerra, è stata capace di enormi nefandezze o di menzogne come l´eccidio di Katyn attribuito da Stalin ai nazisti, per nascondere la responsabilità dell´Armata Rossa.
Se non ci fosse la maledetta spiaggia, soltanto grigia e malinconicamente fuori stagione e fuori tempo, come nel finale dei film di Fellini. Quale governo rispettabile oserà mai più farsi fotografare mentre ossequia e bacia il macellaio di Tripoli, ci si chiedeva ieri? Quale turista, per quanto disperato, oserà mai affondare la paletta in quella sabbia?
La Repubblica 24.02.11