L’Italia è il paese dell’Unione europea che spende meno per politiche di contrasto alla povertà: lo 0,1% del reddito nazionale contro circa 13 volte tanto negli altri paesi, compresi i nuovi entrati dell’Est europeo. Non certo perché in Italia ci sono pochi poveri. Erano nel 2007 più di 3 milioni le persone che vivevano in condizioni di povertà assoluta, non potendosi permettere con il proprio reddito un livello di vita “minimamente accettabile”.Vale a dire livelli nutrizionali adeguati, un´abitazione con un minimo di acqua calda e riscaldamento e abiti decenti. Un terzo di queste persone, si tratta soprattutto di chi ha perso il lavoro e non ha accesso a cassa integrazione, indennità di mobilità e agli altri ammortizzatori groviera, ha redditi medi inferiori ai 4.000 euro all´anno. La situazione non può che essere peggiorata durante la crisi, dato che il reddito medio pro capite degli italiani è calato del 5 per cento e più famiglie sono presumibilmente scese sotto la soglia di povertà.
Se decidessimo di aiutare queste persone, portando il loro reddito al di sopra della soglia di privazione, raggiungeremmo la quota di spesa per assistenza degli altri paesi dell´Unione europea che hanno da tempo introdotto programmi in grado di assicurare un reddito minimo a tutti i cittadini. Ma continuiamo a non volerlo fare. I governi si succedono e, in genere, fanno finta di nulla. Qualche volta, per salvare le apparenze, scrivono “libri bianchi” che annunciano immancabilmente “un programma straordinario contro la povertà”. Quando proprio non possono farne a meno, introducono delle misure “sperimentali”, circoscritte ad una fascia limitata di popolazione, e transitorie.
Durante la Grande Recessione del 2008-9 non si poteva far finta di niente. È stata così introdotta una carta acquisti che escludeva a priori persone senza dimora, indigenti con figli più di 3 anni o con meno di 65 anni e destinata ai soli cittadini italiani. Il risultato è che si è speso ancora meno di quanto previsto, raggiungendo una platea di beneficiari inferiore a un terzo di quanto inizialmente preventivato. Sarebbe bastato abolire i criteri anagrafici permettendo anche a chi ha meno di 65 anni ed è povero di fruire della carta per allargare la platea di beneficiari, rendendo questa misura di un qualche significato nel contribuire a ridurre, pur marginalmente, la povertà. Invece, il governo ha deciso di seguire una strada tortuosa, preludio di sprechi e nuove iniquità. L´articolo 2 del Milleproroghe arrivato ieri in Aula alla Camera e giustamente bloccato dal Capo dello Stato perché contiene tutt´altro che semplici proroghe di norme vigenti, prevede che nei soli Comuni con più di 250.000 abitanti venga “avviata una sperimentazione in favore degli enti caritativi” della durata di 12 mesi. La relazione tecnica allegata al provvedimento precisa meglio cosa si intende fare: “La norma identifica come beneficiario non già il destinatario ultimo della carta, ma l´associazione che si impegna a distribuirla”. In altre parole, lo Stato assegnerà la carta acquisti a imprecisati “enti caritativi” e saranno questi ultimi a dover decidere a chi dare la social card e a chi no, sottraendo questo compito ai servizi assistenza dei Comuni.
È una scelta che suscita alcuni inquietanti interrogativi.
Primo, chi deciderà quali enti caritativi sono degni di ricevere e distribuire le carte acquisti e quali no? Nel vuoto delle nostre politiche di assistenza, mortificate ulteriormente dai tagli ai bilanci dei Comuni come documentato ieri su queste colonne, spesso sono gli enti religiosi o associazioni culturalmente se non politicamente caratterizzate ad assistere i più poveri. Finché gestiscono risorse proprie che, in principio, dovrebbero integrare le prestazioni pubbliche, non c´è nulla di male. Ma perché obbligare un immigrato di religione musulmana a doversi rivolgere a un ente caritatevole cattolico per ricevere l´assistenza cui ha diritto secondo una legge dello Stato? Perché vincolare una persona culturalmente o ideologicamente poco affine a un partito politico a dover dipendere dai trasferimenti di una organizzazione collaterale di quel partito? In altre parole, si tratta di assistenza sociale o di promozione di un partito politico o di una religione?
Secondo, sulla base di quali criteri questi non meglio definiti “enti caritatevoli” procederanno alla distribuzione delle social card? I servizi assistenza dei Comuni dispongono sulla carta di informazioni molto più accurate per valutare la presenza di condizioni di bisogno, a partire dalle dichiarazioni Isee e possono incrociare queste informazioni con quelle provenienti da altre banche dati amministrative. Sono lastricate le vie delle metropoli lombarde di enti assistenziali che favoriscono famiglie che non sono certo in condizioni di bisogno … Basti pensare alle pie assegnazioni di dimore a canoni stracciati nel pieno centro di Milano anche in epoca molto recente. Colpisce in queste assegnazioni non solo l´entità degli sconti praticati sui canoni di mercato praticati, ma anche l´enorme difformità di trattamenti nello stesso anno e stabile, come se i locatori del Pio Albergo Trivulzio avessero libertà totale nel decidere chi favorire e quanto regalare a famiglie tutt´altro che bisognose. È noto, inoltre, che molte scuole private concedono borse di studio e buoni pasto con criteri molto meno restrittivi delle scuole pubbliche. Insomma, attribuendo la scelta dei beneficiari al terzo settore il rischio che i soldi non vadano ai poveri è più forte che lasciando alle amministrazioni pubbliche questa funzione.
Terzo, chi coprirà i costi legati all´individuazione delle famiglie bisognose da parte degli “enti caritatevoli”? Sulla carta non sono previsti stanziamenti aggiuntivi per la gestione della “sperimentazione”. La relazione tecnica stima in circa 100.000 le nuove carte da erogare. Essendo queste del valore di 40 euro al mese cadauna, la loro assegnazione comporterebbe una spesa di 48 milioni di euro a fronte dei 50 disponibili. Bene chiarire subito comunque che ogni euro risparmiato non potrà essere destinato agli “enti caritatevoli”. Auspicabile anche che non si trovino altre forme di compensazione meno trasparenti per gli enti erogatori. Anche di queste partite di giro sono costellate le vie della transazioni fra le amministrazioni pubbliche e molte associazioni del terzo settore.
Quarto, dov´è la “sperimentazione”? Nel Milleproroghe non si fa alcun riferimento ad una valutazione di questo “esperimento”. Non è contemplata, ad esempio, la raccolta di dati nelle città coinvolte dal provvedimento e in città in cui non cambia nulla rispetto alla normativa vigente. Dal raffronto si potrebbe capire se il coinvolgimento del terzo settore ha portato a migliorare la capacità della carta acquisti di raggiungere i più poveri. Fin quando non si faranno in Italia valutazioni delle politiche pubbliche, meglio limitarsi a dire le cose come stanno. Sperimentazione è solo un termine nobile per dire che non ci sono soldi per tutti. E nasconde un´altra verità: i soldi non ci sono semplicemente perché non si è voluto trovarli.
La Repubblica 23.02.11
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Aiutare i più poveri con la social card? «Una buona idea ma non c’è un euro», di G.V.
Buona l’idea, ma non ci sono i soldi. Così il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, liquida la proposta delle Acli di estendere la social card a tutte le famiglie che vivono in condizione di «povertà assoluta», che secondo l’Istat sono 1,3 milioni. Nel giorno dell’approdo alla Camera del decreto Milleproroghe, il maxiprovvedimento che contiene anche il ripristino della carta acquisti come già la conosciamo (per le famiglie povere con over 65 o bimbi sotto i tre anni), le Associazioni cristiane dei lavoratori presentano un piano triennale in soccorso dei meno abbienti. In sintesi, una nuova social card: si tratta di un mix di aiuti economici e di servizi da estendere, entro il 2013, agli oltre tre milioni di italiani e agli stranieri residenti in Italia in stato di semi indigenza. Il piano prevede che la carta, inventata nel 2008 da Tremonti per far fare la spesa agli anziani in difficoltà, passi dagli attuali 40 euro mensili a una media di129euro; che la possibilità di farne uso vari a seconda del costo della vita della città di residenza e che i Comuni elaborino un «Pia», progetto d’inserimento individualizzato, che oltre ai servizi alla persona includa un percorso di inserimento lavorativo. Il tutto per oltre due miliardi di euro: «Una goccia nel mare rispetto alla spesa pubblica per il Welfare – sostiene l’Associazione presieduta da Andrea Olivero. Quella delle Acli è una proposta valida, ma l’introduzione di diritti soggettivi è «un lusso che di questi tempi è difficile permetterci», replica Sacconi. Il governo al massimo riuscirà a finanziare la vecchia social card. Una soluzione che «ancora una volta non risolverà alcun problema – attacca Carla Cantone, segretario generale dello Spi-Cgil – al contrario continuerà ad umiliare i pochi beneficiari, costretti a percepire come un favore ciò che invece è un loro diritto: un reddito per vivere in dignità e un’assistenza sanitaria degna di un paese civile». Secondo la sindacalista, «il “governo del fare” finge di non vedere l’ulteriore aumento della povertà, la mancata tutela dei redditi da pensione» e, inoltre, «cancella il Fondo nazionale per la “non autosufficienza” ». Dai calcoli dello Spi, oltre il 65% dei pensionati vive con meno di 750 euro al mese. A questi, «l’unica risposta che il governo sa dare è un po’ di carità».
L’Unità 23.02.11