Ho avuto la sfortuna di nascere quando il movimento delle donne non era più raggiungibile dalla mia posizione geo-anagrafica, se mai lo era stato. Negli anni ´80 l´eco delle voci femministe che invocavano rispetto e diritti si era già attenuata, mutando in discorsi complessi dentro stanze al di fuori delle quali lo si sarebbe udito in misura via via sempre minore.
La mia generazione intanto cresceva altrove, in un´altra ansa del tempo, attraversando la contraddizione senza riconoscerla. (…)
L´Italia era preda di una crescita economica ubriacante, che imponeva l´equivalenza tra vita e attivismo. Aprirono le palestre, perché il culto dell´efficienza aveva bisogno delle sue chiese. La produttività professionale divenne principio di senso, sfociando in arrivismo. Il benessere smise di essere uno stato dell´anima e divenne una merce acquistabile; la gioventù e la bellezza si scoprirono valori etici e il consumo assurse al rango di scopo finale dell´orgia sociale che fu quel decennio. Quella narrazione di mondo, benché profondamente mortifera, non aveva né poteva avere modelli di rappresentazione per la morte, se non in alcuni filoni di controcultura di nicchia. Il femminismo, se aveva riflettuto di morte, non ce ne aveva lasciato eredità. Restavano solo le collaudatissime traduzioni sociali degli imprinting religiosi del cattolicesimo, per i quali la morte è la conseguenza di una colpa ontologica. Una colpa, a voler essere precisi, tutta della donna.
(…) Per la donna c´era anche un´esplicita condanna a vita, alla vita, quella altrui a costo della propria, in una riproduzione compulsiva senza risparmio né possibilità di scelta. È stato così per secoli, finché le lotte femministe non hanno fatto a pezzi l´icona della donna fattrice. Gli anni 80 tradussero questo risultato civile in una rinuncia alla riproduzione tout court, perché la manutenzione ossessiva di sé sembrava già più che sufficiente.
Il debito ancestrale femminile non si può tuttavia eludere così. Aver stabilito che il dare la vita è una scelta e non un obbligo non cancella la colpa: la donna che non dà la vita resta in ogni caso un´addetta obbligata ai suoi aspetti problematici, quelli che più strettamente confinano con la morte: la malattia, la vecchiaia, la fatica e il dolore. È della natura femminile prendersi cura, dice la vulgata dell´unico paese d´Europa dove la donna è un ammortizzatore sociale; ma è solo un altro modo per ribadire che i difetti della vita sono i confini stessi della nostra colpa ontologica, l´unica che non sarà dimenticata in una civiltà che dell´oblio di sé ha saputo far cultura. Se dunque non vogliamo dare acriticamente la vita, occuparci del suo limite non solo è oblazione dovuta, ma va vissuta con l´aggravante paradosso di «non poter morire» a nostra volta, giacché non ci è permesso consumarci con dignità mostrando il nostro tempo. Non possiamo neanche invecchiare. Per questo di una donna che non nasconde i suoi anni si dice che sia «poco curata», rivelando come la «cura» in un mondo come il nostro non sia altro che la negazione del limite. L´uomo, il maschio, muore e lo sa; lo ha imparato da secoli di narrazioni che lo vogliono laicamente eroe, o religiosamente martire. (…) Ma per la donna la morte non è un luogo vivibile in prima persona, perché è ancora lo spazio della cura di qualcun altro. Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti. Dalla madre del crocifisso all´ultima delle vedove algerine, l´unica morte frequentabile è quella altrui, ai cui piedi piangere dolorose. Dopo aver lottato per non farci obbligare alla vita, la prossima battaglia sarà riprenderci la morte, la nostra.
La Repubblica 23.02.11