Il resto del mondo ci crede e produce economia, sviluppo, commercio, conoscenza. Noi siamo rimasti al palo. Arranchiamo anche su scala minore, in Europa. E l’alta tecnologia esce dalle nostre prospettive. L’Italia investe ogni anno in ricerca industriale lo 0,5% della ricchezza che produce. È poco. Troppo poco. Sia rispetto all’ideale proposto dagli economisti per un’economia competitiva, fondata sulla conoscenza. Sia rispetto a quanto fanno in pratica agli altri paesi, a economia matura e economia emergente.
E per questo paga un prezzo salatissimo. Il prezzo del declino.
Che l’Italia investa poco in ricerca industriale sono i numeri a dirlo, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nell’era della conoscenza, gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S) hanno infatti un valore economico decisivo. L’ideale, sostengono gli economisti, è che un paese (o un gruppo di paesi, come l’Europa) investa in R&S almeno il 3% della ricchezza che produce. In particolare occorre che gli investimenti pubblici, diretti soprattutto verso la ricerca di base e la ricerca applicata, ammontino ad almeno l’1% del PIL, mentre gli investimenti delle imprese indirizzati soprattutto verso lo sviluppo tecnologico capace di creare innovazione di prodotto, oltre che di processo, raggiunga almeno il 2% del PIL. Gli investimenti pubblici italiani in R&S ammontano a circa lo 0,6% del Pil: siamo quindi al 40% dal livello ideale. Mentre gli investimenti delle imprese sfiorano appena lo 0,5% del Pil: appena un quarto del livello ideale.
Non si tratta, solo, di un gap di natura accademica. Le distanze sono enormi anche in rapporto al comportamento concreto degli altri paesi. In Italia investiamo in ricerca la metà esatta della media mondiale. Siamo, insomma, tra i fanalini di coda non solo d’Europa, ma del pianeta. A fronte del nostro 1,0% complessivo, infatti, l’Europa a 27 investe in media l’1,7%; la Gran Bretagna l’1,8%, la Francia il 2,2%; la Germania il 2,6%, la Svezia oltre il 3,2%. Fuori d’Europa gli Usa investono il 2,7%; il Giappone il 3,3%; la Corea del Sud il 3,4%. Tra i paesi a economia emergente la Cina l’1,6%, il Brasile l’1,1%, il Sud Africa l’1,0%.
Queste differenze sono enormi. Ma diventano addirittura eclatanti se la nostra analisi comparativa si focalizza sulla ricerca delle imprese. Che, abbiamo detto, sfiora appena lo 0,5% del PIL. Contro l’1,2% di Francia, Gran Bretagna e della stessa media europea, Contro l’1,8% della Germania o degli Stati Uniti. Per non parlare di Giappone o Corea del Sud, dove gli investimenti delle imprese in sviluppo tecnologico superano il 2,5% del PIL. In pratica le aziende italiane, a parità di fatturato, investono in ricerca il 60% in meno di un’azienda francese, inglese o europea; quasi il 75% in meno di un’azienda tedesca o americana; l’80% in meno di un’azienda giapponese o coreana. Nn è un problema di cultura imprenditoriale. A parità di specializzazione produttiva e di fatturato, un’azienda italiana investe in ricerca esattamente quanto una tedesca o una coreana. Chi fabbrica divani in Italia ha la medesima cultura innovativa di chi li fabbrica a Taiwan. E chi lavora nell’aerospazio in Italia investe in ricerca quanto chi lavora nel settore dell’aerospazio in America.
È un problema di sistema paese. E il sistema manifatturiero italiano si caratterizza per avere un alto tasso di piccole e medie industrie. Ma soprattutto per avere una specializzazione produttiva nelle basse e medie tecnologie. Una vocazione che abbiamo coltivato nei decenni puntando sul basso costo del lavoro e sulla svalutazione competitiva della lira. Da a venti anni a questa parte questi due vantaggi competitivi sono venuti meno. Con la nuova globalizzazione una miriade di paesi può competere con noi sul costo del lavoro. Con il cambiamento della moneta dalla debole lira al forte euro, abbiamo perso la possibilità di azionare la leva monetaria.
Occorre, dunque, cambiare specializzazione produttiva. Cambiare il paradigma produttivo. E passare da una prevalenza delle imprese che producono beni a media e bassa tecnologia a imprese che producono beni ad alta tecnologia. Da venti anni non siamo capaci di imboccare questa strada obbligata. Ma è possibile farlo? Basta leggere gli ultimi rapporti sulla ricchezza procapite del Fondo Monetario Internazionale per rispondere a questa domanda. La Corea del Sud è per numero di abitanti (poco meno di 50 milioni) un paese solo un po’ più piccolo dell’Italia. Ebbene, nell’anno 2010 per la prima volta il reddito procapite dei coreani ha superato il nostro. Nel 1980 un coreano poteva contare, in media, su un reddito procapite pari a un quarto di quello di un italiano. Come ha fatto la Corea in trent’anni a recuperare il gap e a superarci? Cambiando la specializzazione produttiva della sua economia. Puntando sull’innovazione fondata sulla conoscenza. E la conoscenza è generata sia investendo in ricerca (in assoluto oggi la Corea investe oltre tre volte più dell’Italia), sia investendo in capitale umano. Nel 1980 i coreani avevano una percentuale di laureati rispetto all’intera popolazione molto basso, inferiore a quella dell’Italia. Oggi detengono il record mondiale dei laureati nella fascia di età compresa tra 25 e 34 anni: il 60%. Tre volte più dell’Italia. La Corea dimostra che è possibile cambiare la specializzazione produttiva di un paese grande come l’Italia in tempi relativamente brevi. Con effetti anche sociali tangibili. Venti anni fa la società Corea aveva un tasso di disuguaglianza (misurato con l’indice di Gini) superiore all’Italia. In questi venti anni la disuguaglianza in Corea è diminuita, mentre in Italia è aumentata. Risultato: oggi i coreani sono non solo più ricchi degli italiani, ma vivono anche in una società meno diseguale.
L’Unità 21.02.11