Può un Paese vivere nella perenne attesa del Giorno del Giudizio, convinto che sia programmato sempre per domani mattina? Da mesi non si fa altro che parlare della resa dei conti finale e della caduta di Silvio Berlusconi e del suo governo, gli occhi sono sempre puntati su una data cruciale, considerata definitiva: il discorso di Fini a Mirabello all’inizio di settembre, quello di Berlusconi del 29 dello stesso mese alla Camera, le dimissioni dei ministri finiani, il voto di fiducia del 14 dicembre, le rivelazioni di Ruby, l’arrivo delle carte sulle feste di Arcore a Montecitorio, la decisione del giudice per le indagini preliminari di Milano, ora il giorno dell’apertura del processo al premier il prossimo 6 aprile.
Nel frattempo il presidente del Consiglio ha prima visto franare la sua maggioranza fin sotto la soglia fatidica dei 316 voti alla Camera, poi l’ha ricostruita tornando a stare a galla e incassando svariati voti di fiducia (l’ultimo questa settimana al Senato).
L’ attenzione del governo, dell’opposizione e dell’informazione è spasmodicamente puntata su questo pendolo, che oscilla ogni giorno a favore o contro Berlusconi, che ci ipnotizza e ci rende incapaci di guardare più lontano o di vedere lo stato in cui versa l’Italia.
Sì, perché il Paese è malato: di divisioni, di insicurezza, di mancanza di futuro, di sfiducia e di assenza di politica. Ma di questo nessuno sembra curarsi.
Continua a venirmi in mente l’ultimo periodo della presidenza di George W. Bush: due terzi degli americani non avevano più fiducia in lui, la maggioranza lo considerava indegno, gli scandali che toccavano la sua Amministrazione erano molti e gravi (dalle foto del carcere iracheno di Abu Ghraib, alla pratica di rapire e spedire in Paesi in cui si usava la tortura i presunti terroristi – le cosiddette «extraordinary rendition» -, dall’uso del «waterboarding», cioè il simulato affogamento di chi veniva interrogato, fino alle commesse militari e sulla sicurezza affidate a società legate al vicepresidente Cheney), i suoi concittadini volevano mandarlo a casa e l’immagine del Paese nel mondo era infangata. Ricordo i viaggi in Europa in cui Bush evitava accuratamente ogni incontro con la folla per il terrore delle contestazioni, l’unica eccezione fu in Albania, dove l’ambasciata americana riuscì ad organizzare ad arte un piccolo bagno di folla per dare un po’ di soddisfazione al Presidente.
Molte furono le manifestazioni di protesta negli Stati Uniti, alcuni proposero di far partire un processo di impeachment, ma il sistema garantiva tempi certi alla durata della presidenza e così l’opposizione democratica, ma anche gli stessi repubblicani, cominciarono a studiare e proporre una strada diversa per l’America del dopo Bush.
Per oltre due anni i democratici, anziché perdersi nell’attesa di un evento eccezionale che potesse mettere fine all’Era Bush, costruirono una visione alternativa e un programma di governo che fosse credibile per il futuro. Ne emersero almeno due, quello pragmatico di Hillary Clinton e quello idealista di Barack Obama. In casa repubblicana invece vinse la visione di John McCain che ridefiniva i pilastri del conservatorismo spostandolo al centro.
Ricordo un comizio in cui un gruppo di studenti, innalzando cartelli contro Bush, chiesero a Obama di vincere per poi processare il Presidente colpevole di crimini di guerra. Obama rispose che non lo avrebbe fatto perché voleva vincere per archiviare Bush, non per continuare ad occuparsi di lui. Voleva vincere per mettere in pratica nuove politiche e cominciò ad illustrare la sua visione per il futuro dell’America. Alla fine anche gli studenti applaudirono con speranza.
Qui in Italia le opposizioni attendono ogni mattina il crollo finale e l’inizio di una nuova stagione, ma non ci hanno raccontato come sarebbe questa nuova Italia, non ci hanno dato nessuna ricetta in cui credere. Anzi continuano a tenere in poca considerazione i dati della realtà, tanto che nella settimana (questa) in cui Berlusconi ha ricostruito la sua maggioranza la sinistra ha litigato su un’ipotesi di candidato premier (Rosy Bindi) anche se le elezioni anticipate non sembrano essere alle porte.
Ora l’opposizione guarda speranzosa al Palazzo di Giustizia di Milano sperando che la spallata finale arrivi da lì, condannandosi però di nuovo all’attesa e al gioco di rimessa. Ma Silvio Berlusconi, pur segnato in maniera indelebile dagli scandali, non sembra intenzionato a farsi da parte e forte di una maggioranza ritrovata punta ad arrivare al termine della legislatura come gli permette la Costituzione.
Il premier, appena risalito in sella, ha mostrato di voler tornare a governare, ma a leggere i resoconti dell’ultimo Consiglio dei ministri si è presi dallo sconforto. Ecco le urgenze del Paese secondo il premier: una nuova legge per limitare e impedire la pubblicazione delle intercettazioni, la separazione delle carriere dei magistrati, un doppio Csm e il ripristino dell’immunità parlamentare. Come corollario una bella discussione sulla necessità – a meno di un mese dalla ricorrenza – di fare festa il 17 marzo, 150˚ anniversario dell’Unità nazionale. E ieri è arrivato l’annuncio della riforma della Corte Costituzionale.
Mentre il Consiglio dei ministri discuteva dei bisogni più urgenti del Paese e l’opposizione si baloccava con le elezioni, ho ricevuto per conoscenza la lettera che un imprenditore veneto, di ritorno da tre fiere in giro per il mondo, ha scritto pieno di sconforto a Unindustria Treviso, che l’ha girata alla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia.
«Ho voluto aggredire il 2011 con l’ottimismo della volontà e con la convinzione che possiamo e dobbiamo farcela sebbene “le assi del mondo scricchiolino”. Non esigo, né ho chiesto contributi pubblici – scrive Fiore Piovesana titolare della Camelgroup, un’ azienda di medie dimensioni che fa mobili nel trevigiano e li esporta in tutto il mondo -, avrei solo voluto vedere vicino a me, nei padiglioni di Toronto, di Adison negli Usa e di Birmingham un sistema Paese vivo, attento alle esigenze degli esportatori, compatto nella sua immagine del Made in Italy, ma ancora una volta registro grande solitudine. Clienti e colleghi che incontro all’estero mi guardano, sorridono maliziosi per le notizie da basso impero che giungono dal nostro Paese e mi allertano sul Made in Italy che comincia ad arrancare sebbene essi continuino a guardare alla creatività delle nostre imprese con grande interesse e tenace speranza. Rientro, sfoglio i giornali nella speranza (illusione?) che, insieme a me, chi ci governa abbia profuso energie per dare prospettive, per aiutarci a creare valore aggiunto ai prodotti, per mettere mano ad un fisco che penalizza e demoralizza il lavoro dipendente e soffoca le aziende. Nulla di tutto questo».
Chi produce, racconta Piovesana, oggi deve confrontarsi con l’aumento delle materie e la nuova impennata del greggio che fa lievitare il costo dei trasporti e dell’energia. E’ una situazione sempre più soffocante e la sensazione è di un totale disinteresse: «Tendono sempre a crescere i dazi doganali sui mobili esportati in Russia, problema per il quale avevamo chiesto a suo tempo al presidente del Consiglio di utilizzare i suoi buoni rapporti con Putin verso una soluzione più favorevole. In questi giorni anche l’Ucraina, partner privilegiato del mobile Made in Italy, segnala un raddoppio dei dazi doganali come gesto di allineamento a quelli russi…». Così per restare competitivo un imprenditore italiano «sarà costretto a ridurre ancora i già esigui margini di guadagno». «Non intendo infatti – sottolinea la lettera – chiedere ulteriori sacrifici al personale già pesantemente penalizzato. Anche l’ultimo dei miei 40 dipendenti ha chiesto un anticipo, se possibile totale, del Tfr in quanto non ha più risparmi».
Questo è lo stato del settore produttivo del Paese e dei suoi abitanti, ma neppure l’ombra di dibattiti in Parlamento o in Consiglio dei ministri con provvedimenti concreti e regolamenti chiari e incentivanti, tagli non furbi alla spesa pubblica o la riduzione dei carrozzoni improduttivi. Si procede per slogan, ci si concentra sulla risoluzione dei problemi personali o si passa il tempo a sperare che qualcuno liberi Palazzo Chigi prima della fine della legislatura.
Camminiamo in un deserto in cui l’unica speranza sono le mille iniziative private che, nonostante tutto, continuano a fiorire ogni giorno. A queste ci dobbiamo affidare, tenendo i piedi per terra e continuando a sperare che qualcuno finalmente alzi lo sguardo per proporre una strada. Il mondo e la storia nel frattempo corrono, dalla Libia alla Cina, e non sembrano intenzionati ad aspettare il nostro risveglio.
La Stampa 20.02.11