L’Italia è stressata. Mentre la crisi politica s’avvita su se stessa, mentre un rumor di sciabole accompagna i nostri passi, ci sentiamo sempre più depressi, frastornati, con i nervi a fior di pelle. Sicché ci sintonizziamo in massa sui talk-show televisivi, sfogliamo nevroticamente i quotidiani (di questi tempi se ne vendono il doppio), girovaghiamo come ubriachi nella Rete. Ma in ultimo ne veniamo fuori ancora più disorientati. Cerchiamo una bussola, troviamo un bussolotto.
Altrove è la politica che funziona da collante, da riferimento collettivo. In passato succedeva pure alle nostre latitudini. Ora non più, ce ne siamo allontanati. O perlomeno abbiamo divorziato dai partiti, non ne vogliamo più sapere. Non a caso, se decidiamo di manifestare in piazza, vietiamo l’accesso alle bandiere di partito. L’ultima volta è accaduto il 13 febbraio, quando un milione di donne ha invaso 230 città. Ma il medesimo divieto campeggiava sul raduno di Libertà e giustizia del 5 febbraio, sui cortei studenteschi del 14 dicembre, sui tanti sit-in del popolo viola.
D’altronde i partiti sono i primi responsabili della nostra condizione. Hanno smesso di confrontarsi sui programmi, mirano piuttosto all’annientamento (verrebbe da dire: fisico) del loro avversario. Sicché cambiano umori e strategie in base alle convenienze di giornata, cercando di sfruttare le debolezze altrui, anziché la propria forza. E sempre con un cerino in mano per accendere un rogo sulla legislatura. Come ha osservato Luigi La Spina sulla Stampa, non molto tempo addietro lo scioglimento anticipato era l’arma che impugnava il premier Berlusconi, quando i sondaggi gli erano ancora favorevoli, quando temeva che lo disarcionasse un ribaltone. A quel tempo l’opposizione faceva resistenza, ma adesso – a sondaggi rovesciati – chiede a gran voce le elezioni, mentre il presidente del Consiglio le rifiuta. E al contempo i partiti di centrosinistra preparano una Santa Alleanza “contro”, dove il cemento unificante non è un programma, non è un leader, è piuttosto la sconfitta del generale Berlusconi. Il quale a sua volta ogni giorno ne ha da dire contro qualcuno, ora i giudici, ora i giornalisti, ora e sempre i comunisti.
No, questo spettacolo è la causa dei nostri mal di pancia, non può esserne la cura. Nemmeno le istituzioni, tuttavia, offrono un pronto soccorso cui bussare. Sono febbricitanti anch’esse, soprattutto il Parlamento. Nel 2011 ha approvato un’unica legge solitaria (peraltro sotto dettatura del governo) e deve ancora recuperare la fatica. Ma la malattia delle assemblee legislative non dipende esclusivamente dalla scarsa energia riformatrice, dal numero pletorico dei loro componenti, dalla mancanza di reazioni davanti all’abuso dei decreti e dei voti di fiducia. Dipende alla radice dal modo con cui furono allevate, da questa legge elettorale che ha trasformato gli eletti in camerieri dei signori di partito, togliendo autorità e prestigio al loro ruolo. Sarà per questo che il tasso di fiducia verso le nostre istituzioni vola rasoterra, con l’unica eccezione del capo dello Stato. Sarà per questo che 4 italiani su 10 promettono di disertare le prossime elezioni, mentre altri 3 si dichiarano indecisi, e magari in ultimo decideranno d’imitarli. Tanto con il porcellum sappiamo già come andrà a finire: alla Camera una minoranza organizzata diventerà d’incanto maggioranza, al Senato non vincerà nessuno, e in conclusione perderemo tutti.
Possiamo allora rivolgerci in appello alla morale? Potremmo, se questo termine fosse contornato da un alone di certezza. Ma la morale – diceva Hemingway – è ciò che ci fa stare bene, e ciascuno sta bene a modo proprio. Inoltre la legge etica (qualunque cosa sia) deve guardarsi da un doppio nemico: l’immorale e il moralista. E il secondo – con quel suo sopracciglio inarcato, col suo sguardo altezzoso, con la puzza del mondo sotto il naso – può ben essere peggiore del primo, o almeno più antipatico. Insomma: non la morale bensì la dignità e l’onore nell’adempimento delle pubbliche funzioni riscatterebbero le nostre classi dirigenti. Non per nulla si riferisce a queste due virtù una regola negletta, quella conservata nell’articolo 54 della Costituzione.
Ecco, le regole. In ultimo se la società italiana ha perso ogni ancoraggio, se i partiti s’incanagliscono in una guerra di tutti contro tutti, è perché la politica via via si è tramutata in una rissa sulle regole, non sulle riforme, non sull’agenda delle priorità economiche e sociali. Ma nessun campionato potrà mai disputarsi se manca l’accordo sul fuorigioco, se l’arbitro viene sistematicamente vilipeso. Un solo esempio: lo scioglimento delle assemblee parlamentari. Per taluni può deciderlo il presidente del Consiglio, quando la sua maggioranza si suicida. Per altri serve l’accordo del premier e del capo dello Stato, come in un matrimonio. Per altri ancora questo potere spetta in solitudine al presidente della Repubblica. Poco importa che le prime due opinioni svuoterebbero le tasche di Napolitano, scippandogli lo strumento più incisivo. Poco importa se suonano altresì paradossali, perché domandano al reo (alla politica cui si deve lo stallo) il permesso di processarlo davanti al tribunale elettorale. Tanto in Italia ogni regola ammette la regola contraria, e alla fine della giostra ciascuno fa come gli pare.
da www.ilsole24ore.com