Impunità, favori, collusioni. Il dizionario del degrado di un entomologo della società
E gli italiani che cosa pensano veramente in un momento di degrado politico e culturale come questo che stiamo vivendo? Per cercar di comprendere il pensiero della pubblica opinione dobbiamo accontentarci dei sondaggi e delle furibonde serate alla tv? (Povero Leopardi che si doleva ai tempi suoi dell’assenza delle «conversazioni private che s’usano altrove» ). Il problema su come sia definibile il carattere degli italiani ha il destino di rimanere irrisolto dopo secoli di silenzi complici, di ambiguità, di giochi della verità distorta per fini politici il più delle volte poco nobili? Ogni tanto qualcuno si immola coraggiosamente nel tentativo di capire lo stato della comunità e di riscoprire le radici di maggioranze e minoranze, oltre che della loro sudditanza a regimi politici dittatoriali o non degni di una grande civiltà come la nostra. Operazione utile sempre, soprattutto in un momento di crisi antropologica nel quale prevalgono la doppia morale, l’interesse individuale, il dissennato giustificazionismo. In un Paese che rifiuta le regole, dove la parola giustizia è nemica, la legge non è uguale per tutti e i principi della democrazia formale vengono violati nella pratica… Ermanno Rea, lo scrittore di quel gran libro che è Mistero napoletano e anche dell’Ultima lezione e della Dismissione, si è avventurato nell’impresa con questo suo nuovo libro che sta per uscire da Feltrinelli: La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani. Non presume Rea, non monta in cattedra, confessa subito che il suo è «lo sfogo di un cittadino con i nervi a fior di pelle» . Scrive anche che il suo è un «libro-sfogo che, legittimamente disordinato, non esita qua e là a farsi favola» . Sa bene quanti nei secoli studiarono il problema del nostro essere, da Dante a Petrarca a Machiavelli e Guicciardini, a Gobetti al Croce a Pasolini a tanti altri scrittori di ieri e di oggi, ma si è ispirato soprattutto a Bertrando Spaventa, il maggior filosofo napoletano dell’ 800, che concepiva la filosofia— scrisse Eugenio Garin, suo estimatore — «come indispensabile premessa dell’opera, azione essa stessa» . — scrisse Spaventa: «Chi definisce che cosa sono l’onestà, la moralità, la giustizia? La Chiesa, non altri che la Chiesa (…). Se lo Stato, in quelle azioni che hanno un lato morale e spirituale, non ascolta i dettami della Chiesa, ma vuole determinare da sé, mediante la luce, come si dice, della ragione naturale, ciò che è giusto e onesto, diventa di necessità iniquo, usurpatore, sacrilego» . Il Rinascimento fu in Italia un gran movimento nelle scienze, nelle arti, nella vita pratica. Poi tutto decadde, la penisola smise di essere un faro per il mondo, la mancata Riforma protestante impedì la nascita del cittadino. Gli italiani, figli della Controriforma, generatrice di torpore e di ubbidienza, restarono sudditi, privi di una coscienza critica, poco inclini alla responsabilità individuale, sempre intenti a tessere compromessi con se stessi e con il mondo. «In cima ai nostri pensieri di italiani perfetti (per fortuna ci sono anche gli imperfetti)— scrive Rea — ci sono soprattutto uomini della Provvidenza dotati di molto carisma. L’odore che preferiamo è quello dell’incenso» . Il saggio di Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza, fa da referente scientifico alla Fabbrica dell’obbedienza. Questo libro di Rea è una narrazione orale, si potrebbe dire. Lo scrittore si definisce un «anticlericale non militante, ma soltanto di buon senso» . Lo affascina e lo tormenta quell’ultimo no di Giordano Bruno prima del rogo in Campo de’ Fiori (sull’angolo tra la via dei Balestrari e la via dei Giubbonari). Non dimentica mai gli orrori della Controriforma che fanno da filo conduttore al libro anche se Rea è perennemente alla ricerca dell’italiano degno e civile e dei momenti alti della società. La rivoluzione napoletana del 1799, Eleonora de Fonseca Pimentel, i 12 (o 14) professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo e persero la cattedra, Antonio Gramsci, la Resistenza che produsse «verità e coscienza» , gli entusiasmi e le speranze del Pci nel secondo dopoguerra di cui Rea fu giovane partecipe. È mai possibile, si chiede lo scrittore, che «tanti delitti efferati di mafia non abbiano subito l’onta di una scomunica» ? E poi: «Non ho mai saputo di un banchiere truffatore scomunicato o anche soltanto pubblicamente biasimato. Di fronte al ricco che ruba, evade, specula, mette sul lastrico la povera gente, la Chiesa non ha mai agitato crocifissi al grido di vade retro Satana!» . Il «mistico silenzio» nasce proprio, secondo Rea che vive a Roma a pochi passi dal colonnato di San Pietro, da quei secoli bui, da quella riforma mancata che ha tolto ogni vigore agli italiani. È un amaro libro, questo di Rea, non di un moralista, ma di un entomologo. Un dizionario del degrado dove le voci sono l’impunità, il favore, la collusione, l’indulgenza incomprensibile, il perdono, sempre vittorioso sulla giustizia. Un’ossessione. Pagare le tasse è considerato un furto: «Non mettiamo le mani in tasca agli italiani» è lo slogan prediletto dai governanti. In cambio del facile consenso si vende la legalità, quel che conta è la certezza dell’impunità. La fabbrica dell’obbedienza, libro privo di noia, è anche un catalogo di civili amarezze. Tra la commedia dell’arte e la tragedia. Tra la critica di costume e la storia moderna e contemporanea. Tra l’Unità d’Italia nata senza progetti e ambizioni alla grande guerra quando «gli ufficiali felloni dello stato maggiore, per coprire le loro responsabilità a Caporetto, non seppero fare di meglio che fucilare molti di quei ragazzi (contadini del Sud) marchiandoli con il nome di traditori» , fino al fascismo che per vent’anni isolò l’Italia dalla cultura europea. E poi Berlusconi. Chissà che cosa ne diranno i posteri tra qualche decennio? Rea analizza il regime berlusconiano, la cui novità sta nell’uso della televisione (di sua proprietà) come strumento di omologazione generale: «Una complessa macchina del consenso di massa, fondata sulla legittimazione (…) di tutto ciò che di sporco esiste nella nostra società e dentro molti di noi: individualismo, avidità, invidia, edonismo. Una macchina della persuasione fondata sulla “tecnica dello specchio”, capace di riflettere, drammatizzandoli al massimo, i peggiori difetti nazionali trasformati in spettacolo» . Riusciranno gli italiani a ritrovare la dignità perduta? Esiste qualche lume di speranza? Rea scrive anche di Ruby rubacuori e del suo protettore di Arcore. Sarà vero, si domanda, che «oltre la metà della popolazione resta fedele al suo “eroe”nonostante i suoi festini, i suoi mercimoni, il suo cattivo gusto, la sua disarmante comicità?» . Conclude così, Ermanno Rea, la sua «fiaba» dai cupi colori: «Nei millenni gli uomini ne hanno superati di ostacoli! Perché non dovremmo anche noi — non so come, non so quando — superare i nostri?»
da Il Corriere della Sera