Le polemiche sul giorno di vacanza per celebrare il 150° dello Stato unitario rivelano la carenza di una “religione civile” condivisa dalla nazione
Esponenti importanti delle élites non sono più in grado di distinguere la politica dall´economia
Sono giornate in cui una comunità celebra in pubblico le ragioni della propria esistenza. Il 17 marzo 1861 il parlamento sabaudo proclamò Vittorio Emanuele II re dell´Italia unita. Oggi, la destra al governo – assai diversa da quella, guidata da Cavour, che governava allora – ne fa una festa nazionale, in occasione del 150° anniversario dell´unità del Paese. Il provvedimento, in sé non sbagliato, suscita però l´aspra polemica dei leghisti e dei sudtirolesi – i primi lo contestano su base politica, discutibile, e finanziaria (mancherebbe la copertura economica della legge); i secondi su presunta base nazionale (austriaca), assurda e inammissibile (come ha detto il Capo dello Stato) –. Ma soprattutto il provvedimento incontra l´ostilità manifesta del mondo imprenditoriale, preoccupato perché un giorno di festa in più sarebbe un colpo per il nostro già disastrato Pil. Di qui, le proposte intermedie di farne una “solennità”, il che renderebbe possibile lavorare e studiare, in clima, però, patriottico (ma la legge è legge, ormai) –. La verità è che membri importanti delle élites del Paese non sanno più distinguere la politica dall´economia e, uomini a una dimensione, riducono la prima alla seconda, ignari del fatto che una società non è solo un insieme di produttori, ma è una storia, una consapevolezza, una – per quanto ambigua sia la parola – identità, che ha bisogno di legittimarsi anche nel profilo simbolico.
A questo, infatti, servono le feste politiche. A far sì che una città, uno Stato, celebrino se stessi, e si ritrovino in un´unità partecipata e, appunto, simbolica, in una giornata speciale, ufficiale e solenne, che s´innalza sulla quotidianità banale e dispersiva. Fiammata di energia, costruzione di forme simboliche che incorporano passioni collettive e danno loro una direzione concorde, la festa celebra – di volta in volta, nei diversi Paesi – nascite, fondazioni, secessioni, liberazioni, costituzioni, rivoluzioni. Cioè le date che scandiscono una vicenda collettiva, e che nella festa diventano occasione di pubblica felicità.
Le feste civili sono sempre religiose, in modo esplicito o implicito: l´atto di concentrare l´amore di tutti per la città e la partecipazione di tutti alla sua vita e alla sua fortuna è un atto religioso; di “religione civile” – che si esprime in parate, in monumenti, in discorsi – in cui l´appartenenza alla comunità politica si fa cosciente atto di immedesimazione dei singoli in una storia, e di adesione alle leggi comuni; o di ‘religione´ – senza aggettivi – in quelle realtà politiche pagane in cui la politica era intessuta e scandita dalla continua presenza del sacro, in cui l´immagine che la città si faceva di se stessa era senz´altro divina.
A esempio della festa come religione civile possiamo prendere il 4 luglio americano, il 14 luglio francese, il 25 aprile (o il 2 giugno) italiano; le grandi ricorrenze in cui una nazione concentra le ragioni della propria esistenza, le rende pubbliche e visibili – proprio a fondare e a consolidare la propria sfera pubblica –, e, compiacendosene, le rinnova e le rinvigorisce. La festa pagana come atto a un tempo veramente politico e veramente religioso è invece esemplificata nelle decine di feste che costellavano l´anno civile e liturgico di Atene e di Roma; la più emozionante, la più cara all´immaginazione di ogni occidentale è la festa delle Panatenee, cioè la processione – uomini, donne, cavalieri, guerrieri, cittadini – che si snoda per i quartieri di Atene e che culmina nel tempio di Atena sull´Acropoli: tutta la città raccoglie se stessa e si offre a se stessa in forma di divinità, senza nulla perdere della propria umanità. E, per di più, questa rappresentazione collettiva della città prende forma e figura non solo nella liturgia di un giorno, ma nel marmo eterno del fregio di Fidia. Una rappresentazione della rappresentazione di vertiginoso ardimento e di ineguagliato pathos espressivo. Se una festa politica esprime la felicità pubblica, in questo caso quella felicità è ulteriormente espressa nella bellezza. E infatti feste e bellezza sono tra i caratteri fondamentali – insieme all´uguaglianza e all´equilibrio tra pubblico e privato – della democrazia ateniese, come viene celebrata da Pericle, nel racconto di Tucidide.
La festa, la felice auto-rappresentazione collettiva, può nascere dal basso – può cioè essere repubblicana, democratica – ma anche può essere promossa dall´alto; nella sua fase barocca, lo Stato moderno, impersonato dal monarca assoluto, ha glorificato se stesso – a partire soprattutto da Luigi XIV di Francia – con feste di corte, ma anche pubbliche, rivolte alla eroicizzazione del re in una sintesi di spettacolarità, mondanità e macchinosità che rende evidente che l´essenza della festa è celebrare un´unità politica. La rivoluzione con le sue numerose feste politiche volle far sì che i cittadini non fossero spettatori della festa, ma attori e protagonisti, e che la felicità del re si mutasse nella felicità della Francia.
Naturalmente, non bastano le feste a generare la pubblica felicità; né la commemorazione di un evento lo rende di per sé buono; ne sanno qualcosa gli infelici cittadini dei regimi autoritari e totalitari, generosi di feste quasi quanto di prigioni. Ma, d´altra parte, l´incapacità di comprendere che la politica passa anche attraverso la dimensione della festa, sobria e spettacolare al tempo stesso, è il segno di una mancanza: di un deficit di felicità, ma anche di spirito di cittadinanza e, dopo tutto, di autostima collettiva.
La Repubblica 17.02.11
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“Come si crea la memoria”, di BENEDETTA TOBAGI
Fondamentalmente, sono vacanze. Se andate fuori da una scuola per sondare gli umori studenteschi sul tema delle feste nazionali nel 2011, gli adolescenti lamenteranno depressi che il 25 aprile è Pasquetta e il 1° maggio è domenica (sospetto reazioni analoghe presso uffici pubblici e affini). Altro che 17 marzo. Dobbiamo avviare le solite geremiadi sulla “mancanza di memoria” e la crisi dell´identità nazionale, con annessi sondaggi allarmanti? se i giovani non sanno cosa è finito nel ´45 e che si è votato nel ´46, a cosa servono le feste nazionali? A rifletterci, però, sono proprio questi vuoti a dare loro un senso, se li guardiamo non come cavalieri dell´Apocalisse culturale, ma spazi da riempire. Le feste nazionali, con il loro armamentario – a volte kitsch, spesso discutibile – di cerimonie, articoli, discorsi, programmi tv, lezioni ad hoc, racconti di nonni nostalgici eccetera, sono, banalmente, il momento in cui molti ragazzi familiarizzano la prima volta con gli eventi fondativi della vita del Paese. Sono innanzitutto occasioni educative: Ciampi docet, con la vasta campagna comunicativa per la “riscoperta della patria” impostata attorno al 2 giugno. Se il carattere festivo rischia di buttare tutto in caciara, innesca però un felice riflesso pavloviano: vacanza = cosa molto buona. Certo, chi è più giovane e non sa molto di storia e politica può domandarsi se davvero si tratti di cose buone e importanti per tutti, confuso dalle polemiche che accompagnano ogni 25 aprile e dagli usi “creativi” del Tricolore proposti dalla Lega. Ma le contestazioni sono il pane quotidiano della democrazia, termometro di malumori profondi di cui tener conto. Obbligano a discostarsi dalla retorica e rinnovare le argomentazioni. Attraverso di esse ogni ragazzo (se accompagnato con intelligenza) può imparare come l´identità italiana sia attraversata da tensioni profonde, che i valori non sono tutti uguali né indifferenti e un Paese democratico deve imparare a gestire il confronto animato tra le “memorie divise” e può uscirne persino arricchito.
Repubblica, antifascismo, lavoro: le date scelte per sigillare la centralità fondativa di questi valori corrispondono non a caso al momento della loro affermazione dopo lotte e divisioni profonde che hanno lasciato, fisiologicamente, ferite durature: un combattutissimo referendum, la fine della guerra civile di Liberazione. Il primo maggio internazionale dei lavoratori uccisi nello sciopero di Chicago si trascina dietro addirittura il lezzo sulfureo della lotta di classe. Consacrarli con festa nazionale è un modo di sottrarre certi valori scritti nella Costituzione all´usura del tempo e tutelarli dalle aggressioni. Feste civili, dunque, anche come reti di protezione su pareti franose, o le barriere galleggianti per arginare gli sversamenti di petrolio (perché oggi certi principi e valori civili sembrano proprio dei cormorani impastati di catrame da ripulire amorevolmente piuma a piuma…).
Certo, preservare non basta, i valori vanno rivitalizzati. La lezione più bella arriva dai gruppi, per lo più di giovani, che si sono riappropriati del primo maggio, trattandolo giocosamente come un palinsesto su cui riscrivere l´agenda dei problemi del lavoro. Dalla prima edizione milanese del 2001, la MayDay Parade alternativa ai cortei ufficiali, espressione di lavoratori precari e autonomi, luogo di produzione controculturale, s´è diffusa nelle altre capitali europee, arrivando fino a Tokyo. La fantasmagoria dei loro carri e la spietata ironia dei Tarocchi di San Precario sono la migliore risposta a chi sostiene che le festività nazionali non possono essere altro che una morta gora di vuota retorica.
La Repubblica 17.02.11
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“Se la data fa politica”, di MASSIMO L. SALVADORI
Presentando una bella ricerca da lui curata e pubblicata dalla Laterza in due volumi nel 1997 su I luoghi della memoria ovvero personaggi, date, strutture ed eventi dell´Italia unita, Mario Isnenghi iniziava scrivendo parole ironiche nella forma ma quanto mai serie nella sostanza. «Avete presente – una volta si chiamava tapis roulant – il nastro trasportatore dei bagagli all´aeroporto? Mi figuro il viaggio delle memorie molto simile a quello. Proprio come valigie e borse, le memorie di un popolo vengono caricate dagli addetti, messe in movimento e poi spariscono per tunnel misteriosi, ricompaiono, compiono tratti diritti, traiettorie e curve visibili o segrete…». Isnenghi aggiunge che «non c´è memoria senza oblio» e che «la cifra della memoria non è solo l´idillio. Un Paese vive anche delle sue lacerazioni».
Queste osservazioni costituiscono una premessa puntuale e stimolante al ragionare oggi sulla prossima ricorrenza del Centocinquantesimo dell´unità d´Italia e sull´andare e venire dello spirito con cui in un paese si considerano alternativamente e diversamente date ed eventi importanti della sua storia: che gli uni vogliono al centro della memoria collettiva e gli altri mal sopportano o addirittura non sopportano affatto. In effetti la celebrazione ufficiale, la sottocelebrazione, la non celebrazione di un evento di grande rilievo politico riflettono un´unità di intenti oppure la sua mancanza.
Avviene che a seconda degli orientamenti prevalenti una data venga prima indicata come degna della venerazione nazionale e in seguito cancellata come inopportuna e da sostituirsi con un´altra di opposto significato. Un esempio. Il 15 ottobre 1930 il consiglio dei ministri decise di cancellare la festività del 20 settembre che celebrava la presa di Porta Pia e la fine del potere temporale dei papi, sostituendola con quella dell´11 febbraio intesa a glorificare la firma dei Patti lateranensi e la conciliazione dello Stato con la Chiesa cattolica.
Ora, qual è la volontà delle istituzioni, a partire dal governo, di ricordare degnamente il 17 marzo 1861? Certo, una macchina delle celebrazioni è stata messa in moto, ma essa è già andata incontro a vari infortuni. Il Presidente della Repubblica non manca di sottolineare la solennità della data ed esorta le parti politiche e gli italiani a raccogliersi intorno ad essa con sentimenti di concordia; ma la Confindustria non desidera che si perda una giornata di lavoro e il ministro della pubblica istruzione ritiene inopportuna una vacanza degli scolari. Della Lega inutile parlare, poiché per essa il 17 marzo è piuttosto un motivo di lutto; e il ministro degli Interni dichiara che quel giorno sarà al suo tavolo di lavoro come ogni giorno.
Naturalmente, il problema vero non è se la celebrazione dell´unità debba essere accompagnata o no da un giorno di assenza dalle attività lavorative e scolastiche, che pure non sembrerebbe improprio. Il problema vero è lo stato dello spirito nazionale, che non è in buona salute: per le vicende del Presidente del Consiglio, i rapporti tra gli schieramenti politici, l´influenza che la Lega esercita sull´intero governo e sulla maggioranza parlamentare, le lacerazioni interne al popolo italiano. Giorno di vacanza o no, il 17 marzo potrebbe essere l´occasione per una riflessione seria e intelligentemente critica sul cammino percorso dalla nazione. Di questo, purtroppo, non sembra vi siano confortanti avvisaglie.
La Repubblica 17.02.11