Un futuro da brivido. E’ quello che aspetta l’Italia nei prossimi mesi sull’asse Milano-Roma. Da una parte, al tribunale di Milano, un processo a Silvio Berlusconi che rischia di essere tutt’altro che breve e sicuramente pieno di ostacoli, come ha spiegato, ieri su «La Stampa», Carlo Federico Grosso. Con imbarazzanti e imbarazzate sfilate di giovani testimoni, al bivio tra la difesa personale e quella del premier. Un rito, destinato a una via crucis dilatoria, tra eccezioni di incompetenza, appelli al legittimo impedimento, richieste di annullamento di atti, e stretto tra le contemporanee udienze di altri tre procedimenti, sempre a carico del presidente del Consiglio.
Dall’altra parte, nelle aule del Parlamento, un governo che, con una risicatissima maggioranza, cercherà di far approvare riforme fondamentali, come quella sul federalismo o quella sulla giustizia, che richiederebbero un larghissimo consenso. Sia per superare gli ostacoli di una opposizione disposta a tutto pur di non farle passare, sia per evitare, come già successo, che l’arma del referendum vanifichi il risultato di tanti sforzi. Se questo è il cupo profilo che si staglia sul nostro orizzonte, aggravato probabilmente da un conflitto istituzionale tra poteri e ordini dello Stato quale non si è mai verificato nella storia della nostra Repubblica, l’augurio non può essere quello che il meglio prevalga sul peggio, ma solamente che, tra i mali, vinca almeno il male minore.
Da molte settimane, ormai, l’interrogativo dominante è uno solo: saranno le elezioni anticipate a far uscire il Paese, in qualche modo, da questa drammatica situazione? L’ipotesi viene caldeggiata o osteggiata, alternativamente, solo per le opposte convenienze elettorali. In una prima fase, l’aveva minacciata il presidente del Consiglio, per convincere i «responsabili» a evitare il rischio di non essere più eletti nel prossimo Parlamento e per chiudere la porta a eventuali successori a Palazzo Chigi nel corso della legislatura. L’opposizione, invece, avrebbe preferito evitare la prova del voto, per avere il tempo di organizzare un’offerta elettorale agli italiani più convincente dell’attuale.
Negli ultimi giorni, le parti si sono invertite. I sondaggi sui consensi a Berlusconi non sembrano troppo rassicuranti per il presidente del Consiglio. Ma le travagliate vicende del neonato partito di Fini, con lo sfilacciamento dei suoi parlamentari, impediscono di pensare che un altro governo riesca a essere sostenuto da una maggioranza diversa. In più, il sorprendente successo delle manifestazioni delle donne ha indotto a sospettare, forse con troppo semplicismo e con forzature magari arbitrarie, che sia mutato il clima psicologico e morale dei cittadini italiani davanti ai costumi pubblici e privati del Cavaliere.
Questa improvvisa inversione tra speranze e paure ha rovesciato ipocriticamente le tesi. Berlusconi, da sempre fautore del consenso popolare come unica patente di legittimità a governare, da sempre fustigatore degli intrighi romani, delle trasmigrazioni di deputati e senatori da un partito all’altro è diventato il più rigoroso difensore della, una volta negletta, «centralità del Parlamento». Scrupoloso e legalistico cultore della «libertà di mandato» che la Costituzione prevede per i rappresentanti del popolo nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama. Senza considerare che, proprio dal punto di vista politico, lo schieramento vittorioso quasi tre anni fa era del tutto diverso dall’attuale, perché comprendeva un partito che aveva in Fini addirittura il cofondatore.
L’opposizione, invece, galvanizzata, forse con troppo entusiasmo, dai verbali delle intercettazioni, dalle piazze, dai numeri dei sondaggi pensa sia questo il momento della spallata elettorale al premier. Nella convinzione, probabilmente fondata, che Berlusconi non sia minimamente disposto a lasciare la poltrona di Palazzo Chigi a un suo erede, Tremonti, Alfano o Letta che sia. E nella speranza, altrettanto probabilmente fondata, che, alla fine, sia Bossi l’unico possibile becchino di questo governo.
Come si è visto, i sofismi dialettici, le ipocrisie ideologiche possono giustificare l’inosservanza di qualunque scrupolo costituzionale, di qualunque coerenza politica e, persino, di qualunque regola della logica. L’anomalia italiana, rispetto alle democrazie occidentali più evolute, è tale, poi, da rendere del tutto inutile un confronto internazionale per trovare una via d’uscita. E’ vero che, all’estero, un primo ministro che si trovasse investito da accuse quali vengono rivolte a Berlusconi si sarebbe subito dimesso e presentato ai giudici per dimostrare, con la massima rapidità, la sua innocenza. Ma, in Francia, in Germania o in Inghilterra il detentore di un così grande potere mediatico e plutocratico non sarebbe mai arrivato a presiedere un governo e, quindi, quelle magistrature non sarebbero state messe nelle condizioni di dirimere una legittimità politica, come, di fatto, è avvenuto nel nostro Paese.
E’ vero, infine, che le elementari regole di un ordinamento liberale non affidano al popolo e alla sua maggioranza elettorale il verdetto su un caso giudiziario. Ma, nella realistica valutazione delle convenienze, questa volta degli italiani, il voto anticipato non può risolversi come il male minore?
La Stampa 17.02.11