Credo che Berlusconi, dopo la decisione del giudice per le indagini preliminari, debba calcolare attentamente i possibili effetti delle sue parole e iniziative. Può criticare alcuni magistrati, ma non può attaccare la magistratura. Può persino spingersi sino a denunciare l’esistenza di un disegno malevolo nei suoi confronti, ma non può rifiutare procedure che appartengono ai compiti e alle funzioni dell’ordine giudiziario. Non potrebbe farlo un cittadino senza assumere implicitamente un atteggiamento eversivo. Non può farlo, a maggiore ragione, un presidente del Consiglio perché il suo atteggiamento verrebbe percepito come un atto di guerra e l’inizio di un insanabile conflitto istituzionale. In tribunale i suoi avvocati possono sollevare eccezioni (compresa quella dell’incompetenza della sede di Milano) e servirsi di tutti gli strumenti che la giustizia garantisce a un cittadino. Ma l’imputato, quando è capo dell’esecutivo, non può rifiutare il giudizio senza esprimere contemporaneamente un voto di sfiducia contro l’intera magistratura e autorizzare obbiettivamente i suoi connazionali a comportarsi nello stesso modo.
È possibile d’altro canto che l’accettazione del giudizio gli assicuri qualche punto di vantaggio. Darà una prova di coraggio. Avrà l’occasione di fare valere le sue ragioni. Eviterà di offrire ai suoi critici argomenti polemici a cui non sarebbe facile replicare. Forse farà persino nascere qualche dubbio nella mente di coloro che già lo considerano colpevole. Non è necessario essere berlusconiano o elettore del Pdl per assistere con disagio a certe iniziative della magistratura inquirente. A nessun italiano può piacere che il presidente del Consiglio si serva della sua autorità per scavalcare tutti i passaggi intermedi e mettere in imbarazzo un funzionario di questura con richieste telefoniche a cui è difficile per un sottoposto non aderire. Ma questa è anzitutto una colpa politica e per di più una delle più diffuse e frequenti in un sistema in cui non sono molti gli uomini pubblici che si astengono dall’approfittare della propria posizione. Si è detto frequentemente, negli scorsi giorni, che anche la magistratura degli Stati Uniti si sbarazzò di Al Capone imputandogli un reato minore. Ma l’evasione fiscale non era un reato minore ed è stata sempre perseguita in America con particolare severità; mentre la concussione imputata a Berlusconi è uno dei reati meno perseguiti della politica italiana. Sarebbe giusto cominciare a farlo. Ma oggi, in queste circostanze, dimostrerebbe che in Italia non esiste soltanto un caso Berlusconi. Esiste anche un pericoloso cortocircuito tra politica e magistratura, un nodo che risale alla stagione di Mani pulite e che non siamo ancora riusciti a sciogliere.
Vi è un’altra ragione per cui Berlusconi deve accettare il giudizio. Il presidente del Consiglio ha un interesse che è anche nazionale. Deve evitare che questa legislatura finisca in un’aula di tribunale. Il solo modo per impedire che questo accada è quello di governare accettando, giorno dopo giorno, il confronto con il Parlamento. Se dimostra di avere una maggioranza, nessuno, se non una sentenza definitiva, può impedirgli di restare a Palazzo Chigi. Se la maggioranza non è sufficiente occorre tornare alle urne. In ambedue i casi avremo dimostrato che la politica non si fa nei palazzi di giustizia, ma nei parlamenti e nei seggi elettorali.
Il Corriere della Sera 16.02.11