Altro che festival di evasione, il suo è una lezione alla politica con la sua serietà il suo livello culturale superiore e anche la sua meritocrazia e democrazia. Finalmente dopo tante frivolezze gli italiani potranno occuparsi da questa sera di qualcosa di serio: Sanremo. Il Festival segna l’avvenuto sorpasso delle canzonette sul dibattito politico-giornalistico quanto a qualità, spessore culturale e, appunto, serietà.
Non ci voleva molto, direte voi, a superare il livello di un dibattito che da qualche tempo a questa parte s’è incentrato sui temi altissimi delle feste di Casoria e del bunga bunga, delle foto di Veronica a seno scoperto e di quelle di Vendola tutto scoperto, delle manifestazioni con le mutande e di quelle senza mutande.
E tuttavia lo stupore del giornalista politico inviato come un marziano a Sanremo, dove non aveva mai messo piede, è grande. «Vai a raccontare l’Italia nazionalpopolare di Sanremo», ti dice il direttore. E tu che sei stato a Montecitorio e ai grandi congressi di partito ti chiedi: se Sanremo è l’Italia nazionalpopolare, quella della politica di oggi che cos’è? Il marziano a Sanremo è colpito subito da una raffica di sorprese.
Le prime sono sorprese per così dire tecniche: il Teatro Ariston è molto più piccolo di quello che sembra in tv; per accreditarsi alla sala stampa non si fa nessuna coda e quindi sembra di essere più in Svizzera che in Italia; i giornalisti rispettano i posti loro assegnati e quindi non sembrano neanche giornalisti; i fotografi non si fanno largo a gomitate e quindi non sembrano neanche fotografi; Belen non è più intelligente che bella perché sarebbe troppo, ma più intelligente di qualche ministra o sottosegretaria sicuramente sì.
Lezione di stile
Le seconde sorprese sono proprio quelle che permettono di smentire il luogo comune del «nazionalpopolare». Ad esempio. La conferenza stampa di mezzogiorno è una lezione di stile e di buona educazione ai protagonisti dei talk show. Non solo non c’è nessuno che mostra il dito medio, che urla, che interrompe o che si rifiuta di rispondere a una domanda scomoda mostrando le terga. Anche i contenuti sono più alti.
Non c’è gossip, non c’è buco della serratura, non c’è battuta pruriginosa. Quando chiedono a Belen se c’è rimasta male perché al festival non verrà Fabrizio Corona, risponde «lasciamo fuori i fidanzati, il mio e quello di Elisabetta», e per noi che ascoltiamo è una doppia soddisfazione: perché almeno qui non c’è familismo e perché Corona ci sarà risparmiato (deve occuparsi, lui sì, di politica, avendo annunciato rivelazioni sulle foto di Berlusconi nudo).
E poi c’è Gianni Morandi. È un tale mito che gli si perdona perfino di non avere un capello bianco. Non è solo un grande artista, non è solo la colonna sonora dei nostri anni beati: è anche una faccia e due mani pulite, mai un pettegolezzo, mai un sospetto. Ha messo su questo Sanremo con un mix di competenza musicale e di tenacia. È andato a chiamare a casa, a uno a uno, i grandi cantanti dei suoi tempi, perfino alcuni cantautori troppo raffinati per essere mai stati a Sanremo, e li ha convinti a venire con la stessa energia ed efficienza con cui i vecchi militanti del Pci organizzavano i festival dell’Unità.
Provate a fare un sondaggio sulla credibilità di Gianni Morandi nel Paese, e mettetela a confronto con quella di metà o tre quarti dei membri del governo, e vedrete chi vincerà. Con i tempi che corrono, un esecutivo tecnico guidato da Gianni Morandi non sarebbe uno scandalo. Nel 1992 cantava «se fossi il presidente» e per adesso è diventato il presidente del Bologna Football Club. Ma domani chissà.
Tra Albano e Alfano
Sanremo è l’Italia nazionalpopolare? Che distrae e anzi un po’ rincoglionisce gli italiani? Leggo in un libro dedicato alla storia del festival che i testi delle canzoni, se letti senza musica, sono disarmanti per comicità involontaria. Ma dubito che un discorso dell’onorevole Scilipoti (e di quasi tutti i suoi colleghi parlamentari) sia più «alto» delle canzoni di Vecchioni o di Battiato. E che Calderoli o Borghezio difendano le tradizioni del Nord meglio di Davide Van De Sfroos.
La sessantunesima edizione di Sanremo va accolta così, come la fine del mito di un festival di evasione. Ormai è una lezione alla politica. Con la sua serietà, il suo livello culturale superiore e anche con la sua meritocrazia e la sua democrazia. Meritocrazia perché chi viene qui a cantare ci viene per bravura e non perché è stato cooptato in un listino bloccato come una qualsiasi consigliera regionale della Lombardia.
E democrazia perché i cantanti saranno giudicati da un pubblico che non farà sconti (se non convinci il pubblico, sparisci) e soprattutto che potrà scegliere liberamente. Qui non ci sono le schede con le preferenze uniche prestampate. Godiamoci questo momento di rinascita nazionale, quindi, come se fosse una lezione universitaria. Tra qualche giorno passeremo da Al Bano ad Alfano e torneremo a sorridere spensierati.
La Stampa 15.02.11