Il dibattito sul federalismo fiscale è stato finora viziato da un’ambiguità di fondo, contenuta nel disegno di legge originario, ma anche alimentata dalla propaganda politica. Poiché la legge delega recita che l’attuazione del fisco federale debba avvenire senza oneri per lo Stato e a parità di pressione tributaria, se ne è concluso che tutti avrebbero pagato meno tasse o almeno non più tasse di prima. Questa è anche la promessa con cui il governo ha sostenuto il provvedimento: il federalismo porta meno tasse. Ma come mostrano i servizi pubblicati nelle pagine 2 e 3, questo non è necessariamente vero. Anche a parità di pressione tributaria, se la riforma sposta il carico fiscale dei tributi locali da alcuni cespiti o da alcuni contribuenti ad altri, è ovvio che qualcuno ci può perdere e qualcun altro guadagnare.
E nel caso del decreto sul federalismo municipale – che sarà con tutta probabilità approvato dal parlamento dopo il pareggio in commissione bicamerale – i perdenti sono per molti aspetti le imprese.
Questo è certamente vero nel caso dell’imposta municipale unica. Questo perché le persone fisiche proprietarie di seconde case, a fronte dell’inasprimento dell’aliquota sul proprio patrimonio immobiliare rispetto all’attuale Ici, possono contare su una riduzione dell’Irpef sui redditi fondiari che non dovranno più dichiarare. Un vantaggio che non c’è per le imprese. E poiché l’aumento dell’Imu, per mantenere il gettito inalterato, deve esattamente compensare la perdita indotta dalla soppressione dell’Irpef sui redditi degli immobili, ne risulta automaticamente una perdita per le persone giuridiche.
E questo è vero in qualche misura anche per l’imposta di soggiorno, il cui maggior onere sarà in parte assorbito dalle aziende alberghiere sotto forma di minori prezzi per la clientela, e per l’ampliamento degli spazi per l’imposta di scopo, che di nuovo fa riferimento alla sola imposta municipale.
Paradossalmente, parte di questi effetti sono proprio il risultato, probabilmente non voluto, dell’aver tanto insistito sul fatto che il federalismo fiscale avrebbe portato meno tasse per tutti. Nelle versioni iniziali del decreto si prevedeva infatti che l’aliquota Imu sulle imprese sarebbe stata la metà di quella sulle seconde case; quando ci si è accorti però che ciò avrebbe significato un’aliquota ordinaria dell’imposta comunale unica superiore all’1%, a fronte dello 0,7% massimo per l’Ici attuale, si è rapidamente fatto marcia indietro, timorosi che l’aumento evidente dell’aliquota avrebbe contraddetto le promesse ed eroso il consenso per la riforma. Un approccio più moderato al tema e promesse meno incaute avrebbero probabilmente consentito una soluzione migliore.
Il che ci riporta direttamente all’assunto iniziale: ma è proprio vero che dal federalismo fiscale dobbiamo aspettarci una riduzione della pressione tributaria? Certo, per i contribuenti onesti è opportuno sperarlo, data l’esosità del carico tributario che già sopportano.
Ma la promessa vera del federalismo non è tanto quella di una riduzione delle tasse tout court, quanto quella di una maggiore efficienza nella gestione pubblica locale. E questo può significare tanto minori imposte a parità di servizi, quanto maggiori servizi e imposte più alte. L’importante è che la platea di chi paga i tributi locali coincida largamente anche con quella che riceve i servizi; solo così si può immaginare che eventuali aumenti di imposte avvengano comunque con il consenso dei contribuenti e che i governi locali siano spinti a raggiungere livelli di maggior efficienza per non scontentare i propri elettori.
Purtroppo, proprio questo è il punto più debole del provvedimento del governo sul federalismo municipale. Il problema non è l’ampliamento nell’imposta di scopo; il problema è che date le caratteristiche dell’imposta municipale unica, l’imposta di scopo consente ai comuni di tassare i non residenti per finanziare investimenti che avvantaggiano i residenti, che sono i soli che votano. Allo stesso modo, il problema non è quello di aver deciso di fondare l’autonomia tributaria dei municipi sul loro patrimonio immobiliare; il problema è di averlo fatto esentando del tutto proprio coloro che votano, cioè i proprietari di case che risiedono nel comune di riferimento. È da questo mismatch tra chi paga e chi riceve che ci dobbiamo aspettare i maggiori pericoli per l’evoluzione futura del carico fiscale a livello locale.
Il Sole 24 Ore 14.02.11