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"L'enigmatica vittoria delle masse", di Enzo Bettiza

Sono due, a mio parere, i tratti caratteristici di queste rivolte a catena delle masse arabe lungo le coste africane fino alla punta dello Yemen: il grandioso effetto domino, combinato con una certa indeterminatezza dell’approdo finale del loro travolgente e contagioso movimento da un Paese all’altro. Non si sa quello che potrà accader domani o dopodomani in Tunisia, dove per ora predomina un totale vuoto anarchico, da cui già erompono migliaia di profughi disperati verso Lampedusa. Ancor meno si sa quello che potrà accadere in Algeria, dove i primi sussulti di popolo si stanno scontrando con il potere militarizzato del presidente Bouteflika, addestrato alla soppressione spietata, più che mai deciso a soffocare nel sangue ogni forma di opposizione. Nemmeno è possibile prevedere cosa potrà accadere a giorni in Marocco, in Libia, in Giordania, dove l’ondata lunga dello tsunami non si è ancora manifestata pienamente. L’imprevedibilità è connaturata ai fermenti delle masse arabe, e, più in generale, alle velocissime mutazioni politiche ed economiche delle società arabe.

Queste inducono facilmente a valutazioni affrettate o errate. Basterà dire che un giornale analitico come l’Economist, notoriamente serio per le sue stime in campo internazionale, metteva l’anno scorso Egitto e Tunisia nel novero delle economie stabili del mondo.
Per intanto, sarà opportuno fermare l’attenzione su quanto è appena successo proprio in Egitto, il più cospicuo, più antico e più popoloso dei Paesi a maggioranza islamica dell’Africa settentrionale.

Oggi ottantacinque milioni di abitanti sotto un cielo procelloso; fino all’altroieri due milioni giornalieri di greggio attraverso lo stretto di Suez, e migliaia di turisti istancabili fra le piramidi e le sponde del Nilo. Di colpo, dopo trent’anni di democrazia di facciata, manipolata dal pugno militare d’un capo di Stato sostenuto e finanziato dall’America, abbiamo assistito ai diciotto giorni di una sommossa sempre più vasta, più incontenibile, che sembrava avere e aveva un solo obiettivo individuabile: la cacciata dal Palazzo del presidente Mubarak. L’hanno definita «rivoluzione» o, addirittura, postmodernamente, «rivoluzione del web», poiché sarebbe stata la generazione dei computer e dei blogger ad accendere la scintilla di una rivolta coronata alfine dalla vittoria.

Le prime domande da porsi, a bocce un poco più ferme, sono due. Quale rivoluzione e quale vittoria? Le rivoluzioni in genere hanno una guida carismatica, una leadership politica o religiosa, un programma di cambiamento radicale come quello di Lenin nella Russia del 1917 oppure, per restare nell’universo islamico, di Khomeini nell’Iran del 1979. La massa rivoltosa che d’ora in ora cresceva nella piazza Tahrir è stata invece acefala. Priva di un programma nitido di libertà e di democrazia, è apparsa, sì, vastamente e variamente coagulata in diverse componenti sociali, studenti, operai, avvocati, medici, islamici dichiarati e no; ma non è apparsa capeggiata da un consapevole gruppo dirigente volto ad abbattere un sistema più che una persona che, per un trentennio, l’aveva rappresentato nel bene e nel male. Hosni Mubarak, in fondo, diligente e realistico protagonista di guerre e paci con Israele, non è stato che la punta estrema, pervertita dalla durata eccezionale, di una casta militare: casta a suo modo kemalista perpetuatasi a partire dal 1952, in un clima di democrazia illiberale, da Nasser a Sadat fino allo stesso Mubarak che, non a caso, i colleghi in divisa hanno allontanato dal potere esiliandolo con l’onore delle armi a Sharm El Sheikh, entro i confini del Paese. Nessuna fuga ignominiosa come quella di Ben Ali dalla Tunisia.

Ecco perché la vittoria enigmatica della massa egiziana può apparire oggi come una vittoria di Pirro. Una vera rivoluzione democratica, con la caduta del sistema militare e almeno una parziale rivalutazione prioritaria del ruolo del Parlamento, non c’è stata. C’è stato un fisiologico passaggio di testimone, acclamato da una massa quasi incapace di comprendere ciò che acclamava, dal logorato Mubarak al suo ministro della Difesa Tantawi. La tanto attesa «transizione alla democrazia», esaltata tardivamente dal presidente americano, verrà paradossalmente gestita da un Consiglio superiore delle forze armate? Mi pare superfluo aggiungere che i generali, una volta confiscata la vittoria delle masse e ristabilito il meccanismo dei controlli sulle masse, saranno più interessati a intralciare che stimolare l’avvento di una vera democrazia.

Un’ultima considerazione non può non riguardare il ruolo velato dei Fratelli Musulmani prima e durante la grande crisi. C’è chi sottolinea la presenza della setta islamica, fondata nel 1928, come un fattore non del tutto negativo nello sviluppo degli eventi in corso. Andrebbe comunque ricordato che i Fratelli hanno prodotto Ayman al-Zahawiri, medico egiziano oggi massimo ideologo di Al Qaeda, e che uno dei loro propagandisti di punta negli anni Cinquanta e Sessanta fu lo scrittore Sayyid Qutb, particolarmente ostile nei confronti dell’Occidente. La setta, che è ormai uno dei partiti meglio organizzati in Egitto, è stata attiva nell’eteroclita massa rivoltosa tramite i sindacati dei medici e degli avvocati da essa creati e controllati. Hamas è una delle sue propaggini nella Striscia di Gaza. I Fratelli Musulmani, combattuti e spesso duramente perseguitati dalla casta laica e panarabista dei militari, hanno un peso virtuale in termini elettorali che non supera comunque il venti per cento; si muovono e s’infiltrano dove possono con dovuta circospezione. Sopravvalutarla sarebbe eccessivo; ignorarla, pericoloso.

I pericoli che circondano l’Egitto dopo l’uscita di scena di Mubarak non sono certo finiti. Una brusca svolta o scossa islamista della «transizione» potrebbe farsi sentire da un momento all’altro. Anche perché una politica estera europea non esiste, mentre l’America di Obama sembra avere la testa altrove. Washington, in effetti, sembra più che mai ossessionata dall’islamismo asiatico: come controllare il Pakistan, come uscire dall’Afghanistan, come trovare un modus vivendi con l’Iran. L’islamismo arabo-africano ha comunque e pur sempre nell’Egitto, ancorché meno importante d’una volta nell’agenda strategica degli Stati Uniti, un suo perno vitale oggi particolarmente esposto e sensibile. Nessuno lo sa meglio di Israele e dell’Arabia Saudita. Sono queste le due potenze regionali che più temono il disinteresse americano per il Medio Oriente e che, da opposti punti di vista, scrutano con crescente preoccupazione le torbide acque del Nilo.

La Stampa 13.02.11