In Italia esiste un divario di genere da colmare. Magari con una legge che fissi quote di presenza femminile. Una manifestazione, domani, che vuole lanciare «un urlo collettivo» contro Berlusconi e denunciare «la degenerazione della libertà in arroganti libertinismi» che offendono la dignità delle donne. E una contro-manifestazione, già questa mattina, che considera gli slogan di quella piazza una forma di «giacobinismo moralista» che farà arretrare le donne stesse a favore di pericolosi agenti del pubblico pudore. Le cronache del caso Ruby e l’appello a partecipare a una grande protesta popolare al femminile hanno percorso e diviso il Paese.
Il dibattito è stato appassionato, a tratti spregiudicato, comunque – crediamo – positivo perché ha animato una sfida non banale tra generazioni e idee diverse. Il Corriere ha dato ampio spazio a questo confronto che non è mai diventato «pollaio» e che, anzi, ha dato prova di una sorprendente vitalità civica.
Ora, per quanto vasta, una manifestazione non fa cadere un governo in Italia. Come non lo fanno cadere i magistrati, e sarebbe grave per una democrazia liberale se ciò avvenisse. Un governo cade in Parlamento e per volontà di elettori ed elettrici che si esprimono in quel senso. Non è questa la partita. Ma una partita c’è ed è una partita fondamentale.
La domanda alla quale dobbiamo rispondere è semplice: l’Italia ha un problema con le donne? La scrittrice Silvia Avallone, 26 anni, ha giustamente sottolineato che siamo state educate all’indipendenza dalle nostre madri: «Questa parola, indipendenza, mi è sempre stata detta con un tono particolare, il tono di ciò che è veramente importante. Non ho mai sentito sulla mia pelle un difetto di libertà».
Se tutto questo è vero – e qui sta il passaggio di testimone tra una generazione femminista che ha molto combattuto e una generazione ostile ai riti collettivi, ma fiera di sé e delle proprie identità individuali – è anche vero che esiste un salto tra il cromosoma acquisito di una libertà senza difetti e quello che succede nelle nostre giornate.
Bastano pochi dati su occupazione, retribuzione, rappresentanza. Le donne italiane si diplomano e si laureano più (e meglio) degli uomini, ma neppure una su due ha un posto retribuito. Una percentuale che ci pone ai piedi della classifica europea, meglio solo di Malta. E, a parità di livello, guadagnano il 16,8% meno dei colleghi maschi. Una donna su quattro lascia il lavoro dopo la maternità: su 100 bambini solo 10 trovano posto in un asilo nido, meno di 5 su 100 in uno comunale. Le donne ministro rappresentano il 21% del totale, le parlamentari non superano il 20%. Nelle società quotate la presenza femminile nei Consigli di amministrazione arriva al 6,8%; le amministratrici delegate sono appena il 3,8%. Questo significa che nel Paese esiste un gender gap, come viene definito nei rapporti ufficiali, un divario tra i generi che rende le donne assenti o deboli in tutti i luoghi – nelle aziende pubbliche e private, in politica e diplomazia, nelle università – dove si prendono le decisioni che determinano poi la vita di una società. E la modernità di uno Stato. Pasolini parlava di «un’incrostazione superficiale di modernità» che in Italia nasconde strati di realtà storicamente superati. Forse quell’analisi feroce ancora racconta una parte di quello che siamo.
La risposta alla domanda dalla quale siamo partiti è dunque «sì». L’Italia ha un problema rispetto a quel 51,4% di popolazione che è costituito da donne. È legittimo protestare; è vitale agire sul terreno. Senza vittimismi fuori tempo, senza attribuire tutti i mali a un nemico, ma senza il timore di mettersi in trincea finché il sistema non diventerà equo ed equilibrato. Se l’obiettivo è «più donne», uno dei rimedi può essere una legge che temporaneamente imponga quote di presenza femminile ai vertici delle istituzioni, dei partiti, delle imprese. Può sembrare una piccola cosa rispetto alle profondità toccate dalle riflessioni di queste ore. Ma è un passo per scuotere il Palazzo, per scavalcare fossati che resistono a lasciarsi colmare dal basso. Il gradino di un 30% obbligatorio, che sta creando onde riformatrici nei Paesi dove viene sperimentato, rappresenterebbe un trampolino per creare movimento e rinnovamento. Avendo subìto a lungo il non merito di altri, per le donne è molto difficile essere avviate verso un recinto, contate e rinchiuse in una percentuale stabilita per legge. Resta però una delle poche soluzioni – bipartisan – che possiamo spingere subito in cima all’agenda politica nazionale. A patto poi che nelle quote finiscano nomi scelti in base a quell’incrocio di talento e volontà che determina il merito delle persone. L’augurio è che alle nostre figlie questo 30% possa un giorno sembrare uno scherzo antico.
C’è un altro punto chiave che ci riporta attorno al caso Ruby. In Italia l’identità delle ragazze – la loro possibilità di crescere indipendenti, consapevoli, forti solo di sé – è messa alla prova da una cultura dell’immagine che in nome di un’idea conformista del successo sfrutta il corpo fino all’ultimo centimetro di pelle. Ci siamo assuefatti, da molte stagioni, a un immaginario femminile assai lontano dalla realtà delle donne che affrontano giornate difficili, o esaltanti, ma comunque estranee a quello che viene raccontato ossessivamente in questi giorni. Vorremmo che le protagoniste dei nostri ragionamenti non fossero solo Karima, Maristhelle, Iris, Aris – libere naturalmente di continuare a fare nel frattempo quello che vogliono – ma tante altre donne. Avranno forse nomi meno esotici, ma saranno personaggi infine più interessanti: vestite come sono delle loro storie quotidiane tenute in equilibrio tra famiglie, lavoro, se stesse. È tempo di scommettere su una società dove ogni diciottenne possa dire di sé quello che scriveva Luciana Castellina nel suo diario in un lontanissimo 15 aprile 1946. «Sono felice di vivere, di discutere, di vedere il mondo, di esprimere quello che provo: sono felice di tutto. Il mondo è mio e lo voglio».
*vicedirettore
Il Corriere della Sera 12.02.11