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"Se l'Italia distrugge la Bellezza", di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

In «Vandali» Rizzo e Stella raccontano come e perché l’Italia stia distruggendo la sua unica ricchezza: l’arte. Un Paese da salvare: I 45 siti Unesco in Italia. Non abbiamo il petrolio, noi. Non abbiamo il gas, non abbiamo l’oro, non abbiamo i diamanti, non abbiamo le terre rare, non abbiamo le sconfinate distese di campi di grano del Canada o i pascoli della pampa argentina. Abbiamo una sola, grande, persino immeritata ricchezza: la bellezza dei nostri paesaggi, la bellezza dei nostri siti archeologici, la bellezza dei nostri borghi medievali, la bellezza delle nostre residenze patrizie, la bellezza dei nostri musei, la bellezza delle nostre città d’arte.
E ce ne vantiamo. Ce ne vantiamo sempre. Fino a fare addirittura la parte dei «ganassa» («Abbiamo il 40% dei capolavori planetari!», «No, il 50%!», «No, il 60%!») giocando a chi la spara più grossa. Primato che, per quanto ne sappiamo, spetta all’unica «rossa» che piace al Cavaliere, la ministra del Turismo Michela Vittoria Brambilla. Che nel portale in cinese con il logo «Ministro del Turismo» lancia un messaggio al popolo dell’Impero di mezzo e sostiene non solo che «le grandi marche di moda sono italiane» e «tutti i tifosi del mondo seguono il campionato di serie A italiano» ma anche che l’Italia «possiede il 70% del patrimonio culturale mondiale». Bum! E il Machu Picchu, i templi di Angkor, le piramidi, Santa Sofia e il Topkapi a Istanbul, il Prado, San Pietroburgo, la Torre di Londra, la cittadella di Atene, i castelli della Loira, Granada, la città proibita di Pechino, il Louvre, la thailandese Sukothai, il Taj Mahal, il Cremlino, l’esercito di terracotta di Xi’an, Petra, Sana’a e tutto il resto del pianeta? Si spartiscono gli avanzi.

Un’intervista di Marcello di Falco all’allora ministro del Turismo Egidio Ariosto sul Giornale ci ricorda che nel maggio 1979 l’Italia era «il secondo Paese del mondo per attrezzatura ricettiva, il primo per presenze estere, il primo per incassi turistici, il primo per saldo valutario». Tre decenni più tardi siamo scivolati al quinto posto. E la classifica per la «competitività» turistica, che tiene conto di tante cose che richiamano, scoraggiano o irritano i visitatori (non aiutano ad esempio le notizie su «1 spaghetto aragosta: 366 euro» al ristorante La Scogliera alla Maddalena) ci vede addirittura al ventottesimo posto.

Certo, è verissimo che abbiamo la fortuna di avere ereditato dai nostri nonni più siti Unesco di tutti. Ne abbiamo 45 contro 42 della Spagna, 40 della Cina, 35 della Francia, 33 della Germania, 28 del Regno Unito, 21 degli Stati Uniti. Ma questa è un’aggravante, che inchioda i nostri governanti, del passato e del presente, alle loro responsabilità. Al loro fallimento. Spiega infatti un dossier del dicembre 2010 di Pwc (Pricewaterhouse Coopers, la più grossa società di analisi del mondo per volume d’affari) che lo sfruttamento turistico dei nostri siti Unesco è nettamente inferiore a quello degli altri. Fatta 100 l’Italia, la Cina sta a 270, la Francia a 190, la Germania a 184, il Regno Unito a 180, il Brasile e la Spagna a 130. Umiliante.

E suicida. Non abbiamo molte altre carte da giocare. Ce lo dicono i dati del Fondo monetario internazionale e il confronto con le nuove grandi potenze. Dal 1994 a oggi, in quella che per noi è stata la Seconda Repubblica, mentre il nostro Pil cresceva di 1,9 volte in valuta corrente, inflazione compresa, quello brasiliano si moltiplicava per 3,6 volte, quello indiano per 4,9 volte, quello cinese addirittura di 11,5 volte (…).

Alla fine di gennaio del 2011 Giampaolo Visetti scriveva sulla Repubblica che «sarà il turista cinese ad alimentare la crescita dei viaggi a lungo raggio ed entro il 2015 diventerà il padrone assoluto dei pacchetti organizzati e dello shopping di lusso in Europa. Il rapporto annuale dell’Accademia cinese del turismo prevede che nell’anno in corso trascorreranno le ferie all’estero 57 milioni di cinesi (…) e il Piano turistico nazionale calcola che entro il 2015 si recheranno all’estero tra i 100 e i 130 milioni di persone, arrivando a spendere oltre 110 miliardi di euro» (…).

Peccato che non ci capiscano. L’Italia, agli occhi di Pechino, rappresenta un incomprensibile caso a sé. Dieci anni fa era la meta preferita dei pionieri dei viaggi in Europa. I cinesi amano il mito dello «stile di vita», il clima mediterraneo, la passata potenza imperiale e culturale, la moda e il lusso, la natura, la varietà gastronomica che esalta la qualità dei vini. «Eravate il punto di partenza ideale» dice Zhu Shanzhong, vicecapo dell’Ufficio nazionale del turismo cinese «per un tour europeo. Poi ci avete un pochino trascurati». Al punto che «la promozione turistica dell’Italia in Cina è inferiore a quella dei Paesi Bassi». Una follia.

Ma per capire la fondatezza dell’accusa basta farsi un giro sul portale turistico aperto dal governo italiano in cinese, www.yidalinihao.com. Costato un occhio della testa e messo su con una sciatteria suicida che grida vendetta. Per cominciare, le quattro grandi foto di copertina che riassumono l’Italia mostrano una Ferrari, una moto Ducati, un pezzo di parmigiano e un prosciutto di Parma. In mezzo: Bologna. Con tanto di freccette sulla mappa che ricordano la sua centralità rispetto a Roma, Milano, Venezia e Firenze. Oddio: hanno sbagliato capitale? No, come ha scoperto il Fatto Quotidiano, è solo un copia-incolla dal sito cinese della Regione Emilia-Romagna aimiliyaluomaniehuanyingni.com (…).

Ma ancora più stupefacenti sono i video che illustrano le nostre venti regioni. Dove non solo non c’è un testo in cinese (forse costava troppo: i milioni di euro erano finiti…) ma ogni filmato è accompagnato da un sottofondo musicale. Clicchiamo il Veneto? Ecco il ponte di Rialto, le gondole, il Canal Grande, le maschere, i vetrai di Burano… E la musica? Sarà di Antonio Vivaldi o Baldassarre Galuppi, Tomaso Albinoni o Benedetto Marcello, Pier Francesco Cavalli o Giuseppe Tartini? Sono talmente tanti i grandi compositori veneziani del passato… Macché: la Carmen del francese Georges Bizet rivista dal russo Alfred Schnittke! La musica dell’Umbria? Del polacco Fryderyk Chopin. Quella della Campania? Del norvegese Edvard Grieg. Quella del Lazio? Dell’austriaco Wolfgang Amadeus Mozart. Quella dell’Abruzzo? Dell’inglese Edward Elgar. E via così: tutti ma proprio tutti i video che dovrebbero far conoscere l’Italia ai cinesi, fatta eccezione per quello della Basilicata dove la colonna sonora è del toscano Luigi Boccherini, sono accompagnati dalle note di musicisti stranieri. Amatissimi, ma stranieri (…).

Il guaio è che da molto tempo immaginiamo che tutto ci sia dovuto. Che gli stranieri, per mangiar bene, bere bene, dormire bene, fare dei bei bagni e vedere delle belle città, non abbiano altra scelta che venire qui, da noi. Che cortesemente acconsentiamo a intascare i loro soldi, quanti più è possibile, concedendo loro qualche spizzico del dolce vivere italiano. Peggio: siamo convinti che questi nostri tesori siano lì, in cassaforte. Destinati a risplendere per l’eternità senza avere alcun bisogno di protezione. Di cura. Di amore. Non è così (…).

Spiega uno studio dell’Associazione europea cementieri che l’Austria nel 2004 ha prodotto 4 milioni di tonnellate di cemento, il Benelux 11, la Gran Bretagna 12, la Francia 21 e mezzo, la Germania 33 e mezzo, la Scandinavia meno di 36 e noi 46,05, battuti di un soffio solo dalla Spagna. Solo che la Spagna ha 90,6 abitanti per chilometro quadrato, noi 199,3: più del doppio. Insomma, di territorio ne abbiamo già consumato troppo (…).

Pochi mesi prima di morire, rispondendo a un lettore che gli chiedeva aiuto per salvare la riviera ligure, Indro Montanelli maledì sul Corriere questo nostro Paese che tanto aveva amato. E scrisse che le ruspe sono sempre in agguato per «dare sfogo all’unica vera vocazione di questo nostro popolo di cialtroni che non vedono di là dal proprio naso: l’autodistruzione» (…).

Diamo qualche flash sullo spreco. Le gallerie della Tate Britain hanno «fatturato» nell’ultimo anno fiscale 76,2 milioni di euro, poco meno degli 82 milioni entrati nelle casse con i biglietti di tutti i musei e i siti archeologici statali italiani messi insieme. Il merchandising ha reso nel 2009 al Metropolitan Museum quasi 43 milioni di euro, ben oltre gli incassi analoghi di tutti i musei e i siti archeologici della penisola, fermi a 39,7. Ristorante, parcheggio e auditorium dello stesso museo newyorkese hanno prodotto ricavi per 19,7 milioni di euro, tre in più di tutte le entrate di Pompei, il nostro gioiello archeologico. Dove i «servizi aggiuntivi» sono stati pari a 46 centesimi per visitatore: un ottavo che agli Uffizi, un quindicesimo che alla Tate, un ventisettesimo che al Metropolitan, un quarantesimo che al MoMa, il Museum of Modern Art. Un disastro. Per non dire di come custodiamo le nostre ricchezze (…).

Dice l’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine di Vienna che quello delle opere d’arte trafugate è il terzo business mondiale del crimine dopo i traffici di droga e di armi. Eppure tra i 69.000 detenuti nelle carceri italiane all’inizio del 2011 neanche uno era in cella per avere scavato una tomba etrusca, rubato un quadro o trattato la vendita di un vaso antico a un ricettatore straniero. Se sei ricercato per «tentato furto di una mucca», come capitò all’albanese Florian Placu, puoi restare sei mesi a San Vittore. Se cerchi di vendere all’estero la statua di Caligola non vai in carcere. Se poi trovi certi giudici, puoi perfino tenerti la merce.

È successo ad Angelo Silvestri, un sub laziale denunciato per essersi «impossessato di beni culturali appartenenti allo Stato». Aveva trovato, guardandosi bene dall’avvertire la soprintendenza, 28 pezzi tra i quali varie anfore antiche e un set di preziosissimi strumenti chirurgici romani con tanto di astuccio, perfettamente integri. Il pubblico ministero chiese una condanna ridicola: sei mesi e 2500 euro di multa. «Esagerato!», pensò il giudice di Latina Luigi Carta. E il 3 maggio 2004 assolse l’imputato perché «di anfore, piatti di terracotta, crateri e vasi, manufatti di vario genere, sono pieni i nostri mari» (…).

C’è poi da stupirsi se i musei stranieri, davanti alla nostra richiesta che venga restituito questo o quel pezzo ricettato, che magari loro con amore custodiscono e con amore offrono in visione a milioni di visitatori, fanno resistenza pensando che quel pezzo finirà anonimamente nel mucchio delle tante ricchezze abbandonate in qualche museo di periferia?

Il Corriere della Sera 11.02.11

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