Siamo tutti d’accordo nel dire che non ne possiamo più delle risse in tv con i politici che urlano, si insultano, si parlano addosso, quindi escono di scena con il beau geste di un abbandono che chissà come mai viene deciso sempre ai titoli di coda. La maleducazione di questi nostri rappresentanti democraticamente eletti è pari, fra l’altro, alla pochezza delle loro argomentazioni.
Visto che il concetto più frequentemente espresso dagli on. e dai sen. è il seguente: «Io l’ho lasciata parlare, adesso lei non mi interrompa». Anche se siamo ormai lobotomizzati al punto da non avere la forza di cambiare canale, certi talk show non li sopportiamo più: sono la riproposizione (in peggio) delle vecchie fiere di paese in cui «chi grida di più la vacca è sua».
Sarebbe quindi da benedire un provvedimento che mettesse fine allo scempio. Ieri abbiamo saputo che l’onorevole Alessio Butti del Pdl ha presentato alla Rai la bozza di un «atto di indirizzo» che sarà esaminato la prossima settimana dalla commissione di vigilanza. Per qualche istante abbiamo sperato in una buona notizia. Ma solo per qualche istante. Il tempo di leggere la bozza. Lette quelle pagine, ci siamo ricordati che ogni volta che i politici (di ogni colore, beninteso) tentano di regolamentare, o meglio di controllare, l’informazione, finiscono sempre con il farci rivivere le memorabili gesta di «Baghdad Bob», cioè Mohammed Saeed al Sahhaf, il mitico ministro dell’Informazione di Saddam Hussein che il 7 aprile del 2003, mentre i carri armati americani erano a poche centinaia di metri da lui, annunciò in tv il «suicidio di massa» degli invasori sconfitti.
Dunque l’«atto di indirizzo» della maggioranza prevede che «tutti i partiti presenti in Parlamento devono trovare, in proporzione al loro consenso, opportuni spazi nelle trasmissioni di approfondimento giornalistico», il che significa che a ogni puntata di Annozero o Porta a porta o Ballarò eccetera debbano esserci in studio più o meno alcune decine di parlamentari; che i conduttori debbano essere non uno ma «due, di diversa estrazione culturale»; che al pubblico presente in studio siano vietate «manifestazioni di consenso (applausi) o di dissenso (comunque espresso)»; che sia «necessario coniugare» il diritto di cronaca «con il rispetto per il pubblico, in particolare nei programmi normalmente in onda nella cosiddetta fascia protetta in cui è indispensabile evitare morbosità», per cui nel caso (facciamo un’ipotesi assurda) ci fosse un sexgate che coinvolge politici, ne parliamo dopo mezzanotte. Fantastico poi il punto in cui Butti, a nome della maggioranza, chiede che si «razionalizzi l’offerta delle trasmissioni di approfondimento giornalistico… allo scopo di evitare ridondanze e sovrapposizioni che possono rendere confusa l’offerta Rai». Sentite bene: «È opportuno, in linea generale, che i temi prevalenti – di attualità, politica o cronaca – trattati da un programma non costituiscano oggetto di approfondimento di altri programmi, anche di altre Reti, almeno nell’arco degli otto giorni successivi alla loro messa in onda». Vuol dire che se ad esempio in un talk show si parla (sempre facendo ipotesi di fantasia) di un’inchiesta giudiziaria sul presidente del Consiglio, negli altri – per otto giorni – ci sarà libertà di parlare di un’inchiesta sul presidente della Camera, della crisi in Egitto, del festival di Sanremo, di che cosa è rimasto di Lady Diana a quattordici anni dalla scomparsa. Non manca, infine, l’immancabile norma ad personam, anzi ad Santoram: «Non può essere consentita la conduzione di programmi di approfondimento o la direzione di Rete o testata a chiunque abbia interrotto la professione giornalistica per assumere ruoli politici».
La tv di oggi è malata, ma per guarirla non servono i soviet. Basterebbe il recupero di antiche virtù come la buona educazione, la moderazione, un minimo di onestà intellettuale: tutte cose che non si possono introdurre per decreto. Eppure se un giorno un politico, in uno di quei salotti tv, dicesse «è vero, mi sono sbagliato» e si alzasse per chiedere scusa e dare la mano al rivale che gli sta di fronte, ebbene in quel giorno quel politico avrebbe vinto. Lo capissero, i politici non avrebbero bisogno di atti di indirizzo.
La Stampa 11.02.11
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“Il nuovo bavaglio del Pdl sui talk show Rai”, di Goffredo De Marchis
L´”atto di indirizzo” del centrodestra: “I programmi devono rappresentare la maggioranza”. “Alcuni spettacoli di satira, sono l´occasione per dibattere di politica”. Pur non avendo carattere vincolante sarà un´arma in più nelle mani di Masi. Se Bruno Vespa il lunedì sera tratta il caso Ruby-Berlusconi, per otto giorni nessun altro talk show potrà tornare sull´argomento. Per fare degli esempi: Ballarò, il martedì, dovrà occuparsi della crisi in Egitto e Annozero, il giovedì, della controversa festa del 17 marzo. È il «principio della ridondanza». A Parla con me sarà necessario il contraddittorio dei comici. Alla parodia di Minzolini dovrà seguire l´imitazione di Gad Lerner o di Bianca Berlinguer, perché «trasmissioni apparentemente di satira o di varietà» spacciano “una” verità per “la” verità.
Cari telespettatori, non siamo su “Scherzi a parte”. È tutto vero, messo nero su bianco dal senatore Pdl della Vigilanza Rai Alessio Butti. Con un “Atto di indirizzo sul pluralismo” che verrà votato dalla commissione la prossima settimana, mercoledì probabilmente. La sinistra occupa la Rai, è la premessa di Butti, la tv di Stato «relega in posizioni assolutamente minoritarie le idee, i valori e le proposte della maggioranza degli italiani». Occorre riequilibrare la situazione. Ma se l´impresa fosse troppo lenta e gravosa, il centrodestra si prepara a un´operazione più semplice e immediata: ripetere l´esperienza delle elezioni regionali. Allora, un regolamento della Vigilanza bloccò tutti i talk show un mese prima del voto. Adesso che un altro voto si avvicina va bissata la censura. Cancellare le voci dell´informazione televisiva, sterilizzarle, ridurre i loro spazi e la loro libertà. Per usare le parole dell´opposizione, un arzigogolato bavaglio. L´atto indirizzo non è vincolante, ma può diventare uno strumento utilissimo per il direttore generale Mauro Masi. Il pretesto per mettere bocca sulle scelte editoriali dell´azienda.
La Rai, scrive Butti, deve «razionalizzare l´offerta delle trasmissioni di approfondimento giornalistico allo scopo di evitare ridondanze e sovrapposizioni che possono rendere confusa l´offerta Rai riducendo la libertà di scelta degli utenti». Come? «È opportuno – continua il senatore della Pdl, molto vicino al ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani – che i temi prevalenti di attualità o di politica trattati da un programma non costituiscano oggetto di approfondimento di altri programmi, anche di altre reti, almeno nell´arco di otto giorni successivi alla loro messa in onda». Sul rispetto di questa regola vigila «la direzione generale» per scongiurare «ripetizioni artificiose o la compressione di temi socialmente e politicamente rilevanti».
C´è anche un riferimento a Report (che non è un talk show) quando si legge nel testo di Butti che «il conduttore è sempre responsabile dell´attendibilità e della qualità delle fonti e delle notizie sollevando la Rai da responsabilità civili e/o penali». Così si risolve la querelle sulla tutela legale per Milena Gabanelli. Sono tutti nel mirino. Il senatore del Pdl sembra «risolvere», con l´atto di indirizzo, i molti scontri tra Masi e alcune trasmissioni. «L´intervento di un opinionista a sostegno di una tesi – scrive – va calibrato con uno spazio adeguato anche alla rappresentazione di altre sensibilità culturali. Ciò è ancora più necessario per quei programmi, apparentemente di satira o di varietà, che diventano poi occasione per dibattere temi di attualità politica». Sono tanti i richiami all´Autorità delle comunicazioni, alle direttive della Vigilanza. Con il contributo della direzione generale, il documento punta a costruire una tenaglia normativa che può stritolare conduttori e programmi. I partiti vanno rappresentanti nelle tramissioni «in proporzione al loro consenso». Solo così «il servizio pubblico rappresenterà il Paese reale, non le èlites culturali né i cosiddetti poteri forti». Lo sbilanciamento a sinistra può essere superato studiando «format di approfondimento che prevedano la presenza in studio di due conduttori di diversa estrazione culturale». E chi «ha interrotto la professione giornalistica per assumere ruoli politici» non può avere la «conduzione di un programma o la direzione di rete o testata». Una norma che varrebbe per Santoro ma anche per Fabrizio Del Noce. Ovviamente, l´attenzione è focalizzata su come vengono trattati i processi in tv. No a «intepretazioni a opera di attori, delle conversazioni telefoniche intercettate». Sì «al giusto rilievo delle conclusioni del processo, anche quando sia assolutorio».
Secondo l´opposizione ci sono gli estremi per giudicare irricevibile il “lodo” Butti. Il presidente Sergio Zavoli però si è impegnato per un documento sul pluralismo e vuole votare. Fabrizio Morri del Pd presenterà una relazione di minoranza. Impossibile trovare un accordo con la maggioranza per un testo unico. In commissione Pdl e Lega possono vincere 21 a 19.
La Repubblica 11.02.11