attualità, politica italiana

"Abbiamo un programma. E poi?", di Pierluigi Castagnetti

Questa mattina il consiglio dei ministri varerà il manifesto elettorale del Pdl e della Lega e nelle prossime settimane il parlamento sarà costretto a certificarne la presunta autenticità. Una serie di finti provvedimenti con finanziamenti ed effetti rinviati in un futuro che auspicabilmente non sarà nella disponibilità della attuale maggioranza.
E in parallelo, tutti i giorni e a reti pressoché unificate (c’è qualcuno che tiene il conto del minutaggio televisivo da mesi a questa parte?), sentiremo parlare di “riforme che questo paese non ha mai visto in precedenza” e di “scelte storiche”.
E gli italiani saranno “educati” a constatare che l’opposizione non vuole il federalismo, né la modifica dell’articolo 41 della Costituzione, né il ponte sullo Stretto, né l’abbassamento delle tasse. E così Tremonti, Bossi, Alfano, e Misiti («mi dia un ministero, un sottosegretariato o una delega..») cercheranno di parlare d’altro per far dimenticare “Ruby e le sorelle”, oltre che l’assoluta inerzia di un esecutivo privo di guida e di idee da mesi, anzi da tre anni.
Ci sarà poi sempre qualche editorialista pronto a scrivere che il Pd non ha un programma. Continueranno a farlo anche dopo l’ultima Assemblea nazionale in cui un partito finalmente unito ha completato la redazione di un programma di governo, che più di governo non si può.
Non dovremo scoraggiarci.
Anzi dovremo continuare così, uniti e propositivi, attivi e reattivi con l’efficacia mostrata da Bersani in Assemblea.
Ma il problema di come siamo percepiti esiste e non va sottovalutato, perché la domanda “qual è l’alternativa?” purtroppo continua a circolare.
La risposta non potrà essere solo, né prevalentemente, nel programma, cioè nell’elenco delle cose che faremo quando torneremo al governo.
La ragione che ci costringe ad andare oltre, infatti, sta nel fatto che il nostro avversario, al di là delle cose che dice e delle poche che fa, rappresenta oggi un senso comune troppo diffuso. «Basterebbe percorrere qualche volta l’autostrada Torino-Trieste – scrive Aldo Bonomi nel suo Sotto la pelle dello Stato – per cogliere il vero punto di riferimento del berlusconismo: quel mondo fatto di capannoni attorniati da villette con i nanetti nel giardino e le Bmw nel garage sotto casa…». Lì c’è l’anima di un paese secolarizzato e rancoroso, che non ha voglia di leggere programmi, ma semplicemente di seguire un capo che la pensi come lui. Berlusconi non ha bisogno di un programma, gli basta presentarsi così com’è, trasgressore e protettore. Noi invece siamo sempre sotto esame, abbiamo bisogno di dire cosa siamo, chi siamo, cosa faremo, come lo faremo, con chi lo faremo. Berlusconi in questi anni ha strutturato una sua tifoseria che come tutte le tifoserie lo è “sempre e a prescindere”, un suo popolo che si identifica in lui, e con il quale da parte nostra si riescono ad avere solo relazioni di reciproco rispetto a patto che non lo si giudichi e non si pretenda di catturarlo ad altra fede. Fortunatamente però in questa forsennata dialettica fra curva nord e curva sud, c’è ancora un piccolo spazio occupato da cittadini liberi e critici, coraggiosamente apoti, che possono ancora fare la differenza se riusciremo ad esserne interlocutori. Sono i cittadini che hanno conservato la capacità di indignarsi, quelli che sentono il declino del paese come una tragedia, che detestano il moralismo ma considerano la responsabilità etica come condizione irrinunciabile della vita politica, che pretendono la serietà la competenza e la sobrietà dei comportamenti nelle classi dirigenti, che non ne sopportano privilegi ed arroganza e non accettano una politica priva di visione e missione, che non hanno nostalgia della prima repubblica ma hanno voglia di sentire il profumo della buona politica. Basterà il nostro programma a interessarli e a conquistarli? Temo di no.
Io penso che occorra riuscire a rimettere in circolazione un’idea diversa di politica, a ricostruire un sentiment, cioè un senso comune, nuovo. E rappresentarlo credibilmente.
Dovremo cioè essere percepiti per la nostra alterità piuttosto che per la semplice alternatività.
L’alterità è una diversità in radice.
Se non se ne è convinti fino in fondo, se si hanno titubanze sulla bontà della proposta degli avversari, se si dubita di sé e della propria differenza, se si mostrano ad esempio incertezze nell’issare la bandiera della moralità perché si teme (senza dirlo, ovviamente) di aprire la strada ad altri magisteri valoriali semmai religiosi, se insomma si fosse tentati di dimostrare che noi certe cose le faremmo meglio anziché radicalmente diverse, allora non sarà facile convincere quei cittadini che cercano in noi una alterità al “disastro antropologico” e all’inerzia governativa.
Io penso che – lo ripeto – dovremo coltivare senza complessi la nostra diversità piuttosto che la nostra rassicurante somiglianza alla proposta dell’avversario. Nella bella intervista al Corriere della Sera (più volte citata nell’Assemblea) Andrea Riccardi ha detto che non si trova più in circolazione un’idea di Italia, una missione dell’Italia e nell’Italia. Non c’è più passione.
Non c’è più fede civile. Prova ne è la tristezza e la noia che accompagnano le celebrazioni del 150° dell’unità. Pensiamo solo al dibattito sul federalismo concentrato sulla cedolare secca sugli affitti o sulla percentuale dell’aliquota dell’ Imu, senza che ci sia mai stata una volontà seria di coinvolgere il parlamento e il paese nel disegno di una vera trasformazione istituzionale della nostra repubblica. Non si vede cioè né respiro né disegno come se si trattasse di un adempimento inutile e prezioso per chi deve metterlo frettolosamente all’incasso elettorale e, dall’altra parte, un adempimento triste e dovuto per chi non può apparire arretrato rispetto a una presunta modernità istituzionale.
Quello che ho tracciato può sembrare un quadro troppo pessimista, ma serve a scuotere un partito che non può sottrarsi all’esigenza di creare nell’elettorato un diverso senso di appartenenza e di identificazione rispetto a quello della destra. Il Pd deve essere percepito, come lo fu nel momento della sua nascita, come partito guidato da un solo obiettivo capace di misurare ogni sua azione: il perseguimento della maggiore giustizia sociale possibile. Il partito che esige sobrietà e moralità nei comportamenti di tutti coloro che sono investiti di funzioni pubbliche, a partire ovviamente dai propri dirigenti.
Il partito che aiuta la società in questo momento di spaesamento e pessimismo a recuperare il senso del limite come valore. La politica infatti non è il tutto della vita, non può né risolvere né rispondere a tutte le questioni che riguardano i momenti essenziali del vivere e del morire; solo gli stati fondamentalisti e totalitari possono permettersi di violare il valore del limite nel rapporto scienza e vita e nel rapporto politica e vita, a partire dalle problematiche che investono la famiglia “una isola che il mare del diritto può solo lambire, la sua intima essenza rimanendo metagiuridica” come diceva Arturo Carlo Jemolo.
Il Pd deve essere percepito come il partito che vuole restituire all’Italia la missione di paese cerniera tra oriente ed occidente, tra vecchia e nuova Europa. Il partito che vuole modernizzare lo stato e riorganizzare il suo welfare attorno ai diritti e i bisogni dei bambini e degli anziani. Tutte cose come si vede che in vari passaggi della nostra elaborazione programmatica abbiamo scritto e detto, senza riuscire a farne la nostra identità.
Chi ci vede sembra chiederci, infatti, un programma per riconoscerci, in effetti ci chiede un’identità, un ubi consistam per riconoscersi.
Intristiscono le dispute ideologiche e perfino teologiche che rischiano di farci regredire a ciò che fummo tutti negli anni lontani quando eravamo ancora in braccia ai nostri nonni, nemmeno ai padri. Ma se sapremo dare respiro alle nostre idee e farcene identità comune, se sapremo guardare più al destino del paese che a quello delle prossime alleanze, forse diminuirà il numero degli italiani che ancora si chiedono con una certa apprensione: “E dopo Berlusconi…?”.

da Europa quotidiano 09.02.11