Giorgio Napolitano interviene sulla morte di quattro bimbi rom causata da un incendio a Roma: «Mai più campi insicuri. Diamo ai nomadi case dignitose» ha detto il presidente della Repubblica visitando la camera ardente. È bufera su Gianni Alemanno, accusato di essere intervenuto tardivamente. Ma il sindaco della capitale fa sgomberare le altre baracche della tragedia e promette: «Realizzeremo delle tendopoli». Dal capo dello Stato alla vicepresidente della Commissione europea, dal cardinale vicario di Roma a Famiglia Cristiana: è lungo l´elenco dei richiami indirizzati al sindaco Gianni Alemanno all´indomani della morte dei quattro bimbi rom, arsi vivi nel campo abusivo di Tor Fiscale.
«Una tragedia che pesa dolorosamente su ciascuno di noi e che ci rende ancor più convinti della necessità di non lasciare esposte a ogni rischio comunità che da accampamenti di fortuna, degradati e insicuri, debbono essere tempestivamente ricollocate in alloggi stabili e dignitosi», è il monito lanciato ieri dal presidente Giorgio Napolitano, che nel pomeriggio ha voluto incontrare la famiglia di Raul, Fernando, Patrizia e Sebastian, «orrendamente periti nel rogo del precario rifugio in cui vivevano», per esprimere «il sentimento di umana solidarietà che con me, oggi, provano tutti i romani e gli italiani». Un gesto di pietà che tuttavia non deve esimere dalle responsabilità: «Le autorità locali e nazionali non possono non sentirsi impegnate ancor più fortemente a dare soluzione a un problema così grave in termini umani e civili», ha concluso Napolitano uscendo dall´Istituto di Medicina Legale dove riposano i quattro corpicini. Più o meno le stesse parole utilizzate dal cardinale Agostino Vallini, vicario di Roma, che, «profondamente turbato», ha esortato le autorità ad assicurare ai nomadi «condizioni di vita dignitose e sicure, procedendo gradualmente ad un inserimento sociale che faccia superare la realtà dei campi».
Un problema certo non solo italiano, ma che il nostro Paese non può continuare a ignorare: «La tragedia di Roma dimostra che l´integrazione dei rom deve restare in cima alle priorità dell´agenda politica», mette infatti in guardia Viviane Reding, vicepresidente e responsabile Giustizia della Ue, avvisando che «entro aprile ciascuno degli stati membri dovrà presentare la sua strategia per migliorare la vita della più grande minoranza etnica del continente». Dichiarazioni che secondo l´eurodeputato dell´Idv, Luigi De Magistris, «confermano il fallimento del governo». Italiano e anche romano, dal momento che «c´è una responsabilità politica nel rogo che ha ucciso i bimbi rom», attacca la presidente del Pd, Rosy Bindi: «Dalla destra solo sgomberi e propaganda».
Ma la polemica tocca anche i rapporti tra le istituzioni. Alemanno tira in ballo i veti di chi, come il sindaco di Ciampino, aveva fatto ricorso contro un campo. Il Comune risponde: «Era nostro diritto contestare la decisione». Nella polemica interviene anche il ministro dell´Interno Maroni: »Una volta definito il piano, tocca agli enti locali dare attuazione».
Durissima la presa di posizione di Famiglia Cristiana: «Alemanno annuncia che chiederà “urlando” al Governo di assegnare poteri speciali al Prefetto per realizzare finalmente tutti gli insediamenti organizzati. Peccato che le urla del sindaco debbano arrivare dopo il pianto straziato di una madre» si legge sul sito internet dei paolini, subito tacciato di «sciacallaggio» dal sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano.
Accuse tuttavia rilanciate da una serie di organizzazioni umanitarie. «La rabbia e il dolore di queste ore non devono portarci alla rassegnazione: se continueremo a considerare una questione come questa un´emergenza, non la risolveremo mai», ha ammonito Unicef Italia. Mentre Amnesty International ha ricordato che la politica degli sgomberi forzati di Alemanno, censurata nel settembre dell´anno scorso perché vietata dal diritto internazionale, «non può costituire una risposta alla povertà e all´emarginazione di tante persone rom».
La Repubblica 08.02.11
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In diecimila vivono ancora nei campi abusivi polveriera nomadi, ecco i numeri del flop”, di Mauro Favale
Roma, smantellate le grandi baraccopoli. Ma ne sono sorte duecento fuorilegge. Realizzate solo sette delle tredici aree attrezzate promesse dall´ amministrazione. Un biglietto da visita impegnativo: «Voglio espellere 20.000 immigrati più o meno clandestini che hanno violato la legge. Poi proseguiremo con lo sgombero dei campi nomadi». Nel 2008, appena eletto, Gianni Alemanno si presentò così ai cittadini di Roma. Immigrazione e sicurezza, i cavalli di battaglia. E un piano nomadi che, presentato a fine luglio 2009, vede spostare sempre più avanti il momento della sua realizzazione. Prima era «entro la fine del 2010». Poi «entro la primavera del 2011». Ieri è stato «entro quest´anno». Ma intanto si fa più vicina l´ombra di un flop fondato su alcune cifre: dei 13 campi attrezzati annunciati, finora ce ne sono solo 7. La realizzazione degli altri 6 è ancora in alto mare. I campi “tollerati” sono 11. Nel frattempo, è stato sgomberato il Casilino 900 (il campo più grande d´Europa) insieme a circa 310 campi e microcampi abusivi. Nuclei di tre o quattro famiglie che, tra impossibilità e non volontà di sistemarsi nei campi già esistenti e con le strutture di accoglienza del Comune già sature, tornano nuovamente a ricostruire baracche. Magari frazionandosi ancora di più.
Il risultato sono più di 200 micro-insediamenti tuttora presenti sul territorio romano. E così, sparsi per la città, ci sarebbero, «oltre 2000 persone», dice il Comune. «Oltre tremila», ribatte il Pd. Addirittura «undicimila», sostiene l´Opera nomadi. Approssimazioni che testimoniano la delicatezza e la criticità del fenomeno. Anche perché il piano nomadi annunciato da Alemanno si basava su numeri molto più contenuti: «Roma non può accogliere più di 6000 persone: questo è il limite della sostenibilità». Il censimento “ufficiale” era riuscito ad intercettare nella Capitale circa 7000 nomadi. Sono loro che compongono la mappa del piano comunale, non il totale dei 18 mila (tra censiti e non). Cinquemila provengono dalla ex-Jugoslavia e, per lo più, vivono nei campi attrezzati o in quelli tollerati. Altri 2000 di nazionalità rumena sono sparsi nei micro-campi abusivi: sulle rive del Tevere o dell´Aniene, nascosti tra gli arbusti, o sotto i cavalcavia della tangenziale est.
«Questa città si presta ai nascondigli – sostiene Sveva Belviso, assessore ai Servizi sociali – ed è impossibile tenere tutto sotto controllo». Per la Belviso, come per Alemanno, la colpa è «tutta della burocrazia. La pianificazione fatta due anni fa regge ancora. L´afflusso che c´è stato, però, era imprevedibile. Vivere a meno 40 gradi sulle montagne rumene è più difficile che vivere a zero gradi nella periferia di Roma». Secondo l´assessore, «ognuno dovrebbe prendersi le proprie responsabilità: il Comune interviene quando il Prefetto ci consegna l´area pronta per il nuovo insediamento. Ma l´autorizzazione per il nuovo campo de La Barbuta, ad esempio, è rimasta ferma un anno e 3 mesi perché scavando sono stati rinvenuti resti di Roma antica». Per il Pd, però, il problema è che «si naviga a vista – afferma il consigliere al Campidoglio Daniele Ozzimo – il Comune ha perso tempo con gli sgomberi senza allestire nuovi spazi e i nomadi hanno scelto di dividersi per non farsi trovare. Aumenta l´insicurezza dei residenti e peggiorano le condizioni di vita dei nomadi».
E poi c´è il capitolo spese: finora 32 milioni che da governo, Comune e Regione sono stati assegnati per il piano nomadi a Roma. «Di questi – spiega il prefetto Giuseppe Pecoraro e commissario straordinario – 20 sono stati spesi per l´ampliamento di 5 campi, pagamento del personale, vigilanza e bonifiche dei campi sgomberati. Quel che resta sarà utilizzato per completare La Barbuta e realizzarne uno nuovo». Ora Alemanno ne chiede altri 30. «Se ci fossero nuovi campi – sostiene la Belviso – si potrebbe dare un po´ di ossigeno alla situazione». E rimettere in moto il piano, visto che la macchina appare ingolfata e, entro un anno, andrebbero chiusi 11 campi “tollerati”.
La Repubblica 08.02.11
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“La preghiera di Sneja nel campo della morte” di Francesco Merlo
«Hai mai visto – mi dice Sneja – un funerale di bimbi celebrato in slavo antico? Gettano fiori lungo la strada, e nelle bare ci mettono di tutto, anche l´Efferalgan e il Vicks Vaporub perché non si sa mai, ci si può raffreddare durante il viaggio verso il paradiso».
Sneja è magra e non somiglia allo stereotipo della fattucchiera, quella che Walt Disney fa vivere ai piedi del Vesuvio. Il suo pessimismo allegro è contagioso: «Cosa credi? Anche noi zingari abbiano i nostri zingari» e quei bimbi sono morti «perché non avevano soldi sotterrati nelle pentole» ai piedi di quegli alberi solitari e scarni lungo le sterpaie dell´Appia Nuova. «Sono morti perché erano i nostri barboni» dice Sneja e ride, ma senza rumore. «Non ci sono tra di voi famiglie povere che muoiono perché esplodono le stufe, perché il fuoco li assale di notte?»
Le racconto che sono stato lì dove c´era il campo e adesso non c´è più nulla, una sedia, una bottiglia vuota, i sigilli su un reticolato che delimita una distesa brulla e la polizia scientifica che ancora esamina – mi pare – ciuffi solitari di erbacce selvatiche. Sneja mi conferma che per scaldarsi riempiono di alcol la solita, immancabile pentola di ferro e incendiano carta, stracci, legno, plastica, «e perciò i bambini d´inverno hanno sempre addosso delle ustioni, ma quelli del tribunale dei minori non vogliono capire che non si tratta di maltrattamenti». E mi dice che c´è una preghiera bellissima che finisce così: «Dio che non sei di pietra, Dio che non sei di marmo, ti scongiuro apri le porte del carcere».
Nella notte una ruspa benedetta ha distrutto quelle quattro baracche che ospitavano una ventina di disperati e su Youtube al mattino presto c´erano già le immagini che ora guardo insieme a Sneja: «Per chiedere l´elemosina bisogna sapere piangere a comando e uno storpio o un cieco possono essere una ricchezza, ma qui è tutto vero, il lamento della madre, le coperte bianche sulle spalle, le autobotti dei pompieri, il fumo, mi vengono i brividi». E a me vengono in mente le deportazioni e l´ultimo bel libro di Roberto Calasso (“L´ardore”) dedicato alla cultura indù, ai Veda: « I nazisti hanno perseguitato e assassinato a centinaia di migliaia proprio gli unici veri Ariani d´Europa, gli zingari, Rom, Sinti. È ben noto che parlano una lingua arcaica neo indiana, che è strettamente imparentata con il dardi, il panjabi e lo hindi moderni».
Qui invece si parla romanesco. Mi avvicino a un vigile urbano che si mette a fare sociologia: «A dotto´, te auguro d´avercelo sotto casa un bel campo rom». I corpicini sono all´obitorio del Verano, per i genitori non c´è pena che la giustizia possa loro infliggere paragonabile a quella che hanno già subito. «Che posso fare io senza i miei figli?» ripete la mamma a cantilena e subito arriviamo noi giornalisti che sogniamo le lacrime dei lettori.
Sneja mi ha accolto e mi porta in giro perché in Sicilia abbiamo un caro amico comune che mi ha molto raccomandato. Ha trent´anni ma ne dimostra cinquanta, la camminata è davvero elegante, si vanta di conoscere tutti i Rom di Roma. E mi racconta che c´è un giostraio che li cerca così, giovani e poveri come quei bimbi che sono morti, li arruola, li alleva e li addestra «topi per infilarsi negli appartamenti, serpenti per sgusciare nelle metropolitane, rane per…». Ehi, Sneja, sei più razzista di un´italiana dei Parioli!, reagisco senza crederci.
Mi dice che il giostraio ha un dente d´oro, «è bellissimo». A Roma i denti d´oro li mette un certo Dragan che di mestiere fa il pentolaio e l´allevatore di cavalli. «È un grande capo. Ma scordati di incontrare Dragan, è alto due metri, se vuoi te lo faccio vedere da lontano». Sono circa le 15 e questo campo Rom, a cento metri dalla pista d´atterraggio di Ciampino, è quello che gli urbanisti chiamano un non luogo, che sarebbe credo un “dove” che sta tra l´essere e il non essere e nel quale non vorresti mai entrare e dal quale temi di non potere uscire. Sneja mi dice di non fare domande: «Vedi, quello si chiama Gringo» e scopro l´integrazione dei western all´italiana. Quell´altro col cappello con la piuma di pavone si chiama Idriz: « Riscuote gli affitti». E quanto costa una baracca con la porta di cartone rosso? «Duecento euro al mese, e ti danno pure forchette e coltelli». Quell´altro che mastica tabacco «è Stevo, ed è nobile, porta l´anello con lo stemma, nessuno si permetterebbe di farlo lavorare, il Re lo vuole sempre nelle cerimonie più solenni». E dove vive il re, in una roulotte?
Ogni tanto sbuca dal nulla un mozzicone di arredamento che sembra abbandonato, un divano, una lavatrice, un carrello di supermercato. A quest´ora ci sono soprattutto uomini, quasi tutti disoccupati, e pochissime donne, conto in totale sei bambini, fumano Marlboro, tre sono senza scarpe e corrono tra l´immondizia, non ci sono gabinetti. Il campo non sembra organizzato secondo un´estetica, ho visitato in passato campi mongoli, le favelas in Brasile e le baraccopoli sulla sabbia tra Catania e Siracusa. Erano meno brutti di questi. Qui c´è armonia solo nelle corde che qualche volta reggono le casupole, forse perché è una perizia da allevatori di cavalli. E ci sono tutti i rottami della modernità, asciugacapelli, telefoni cellulari, un apparecchio per l´aerosol… Capisco che mi sfugge il codice, che c´è un cifrario che forse non si vede. «Le cose belle qui sono nascoste. I vestiti con lo strascico, i gioielli… A mio zio Halija, quando è morto, da solo, accanto ad un bidone che usava come stufa, gli hanno trovato addosso un sacco di soldi cuciti dentro un nastrone di cotone che portava attorno alla vita, sotto la camicia». Non c´è l´acqua corrente ma ci sono il caravan, le automobili, e davanti ad ogni baracca c´è un odore diverso e non mi pare che siano profumi di cucina. Con Sneja vado al campo di via del Salone e poi mi porta in una piccolissima baraccopoli sulla Pontina, una ventina di casupole, è un campo abusivo come quello dei quattro bimbi morti «eccoli, i nostri barboni» mi dice. «Ma non pensare che i più poveri siano i più buoni, la povertà rende feroci, spesso sono i genitori che cercano il giostraio, per i bimbi è il debutto in società, l´ingresso nella vita che è durissima, ma tutti hanno una chance di diventare come Dragan. Eccolo, è quello lì». Vedo un ometto solido, panzuto, baffi neri, un caffettano nero sino ai piedi… «Ma non mi avevi detto che era alto due metri? Sarà si e no un metro e sessanta». «Che c´entra. Solo noi possiamo misurarne la vera altezza» e ride. E questa volta sta ridendo di me.
La Repubblica 08.02.11