Maschio, due anni, bolognese, ammazzato a colpi di pistola (probabilmente dal papà che poi si è suicidato) assieme alla mamma, nel garage di casa, a bordo dell’automobile con la quale stavano forse cercando di mettersi in salvo. Ed è soltanto l’ultimo della serie mentre ancora si stanno cercando le gemelline portate via dal padre suicida e non ancora ritrovate. La mattanza dei bambini— perché ormai è quasi obbligatorio chiamarla così — continua, dunque. Le storie di queste tragedie si assomigliano in modo impressionante e, in genere, vengono classificate, a volte perfino giustificate, con la insensata spiegazione del «troppo amore» , quando in realtà sono il rancore, l’odio, la vendetta, la gelosia ad armare la mano dell’assassino o dell’assassina, e l’amore è, nel migliore dei casi, soltanto un ricordo sbiadito del passato. Quasi sempre c’è di mezzo una separazione, non accettata, non digerita dalla controparte, magari traumatica e con offesa per il soccombente, colei o colui che viene lasciato, per cui l’omicidio, dentro una mente sofferente, esasperata e umiliata, sembra diventare l’unico evento in grado di portare un po’ di consolazione, leggerezza per il cuore, tregua dal tormento. In una logica assurda si è costretti, se non altro dalla frequenza di questi misfatti, a prendere atto, forse, addirittura, a comprendere. Ma perché condannare anche il bambino, perché includere nel furibondo, mortifero livore anche il piccolo che, magari, fino a qualche ora prima si era tenuto in braccio, vezzeggiato, carezzato, riempito di parole dolci? Il troppo amore, del quale regolarmente poi parlano amici e parenti suona bene, ma suona vuoto. Non si ammazza un figlioletto per risparmiargli generosamente i dolori della vita, bensì per rendere la vendetta verso la moglie o verso il marito più tremenda, più totale, più definitiva. Si vorrebbe, allora, chissà, paradossalmente, che fosse istituito per questi piccoli il diritto di divorziare dai loro inadeguati genitori, di scegliersene degli altri più capaci di proteggerli dai livori e dai rancori, di amarli nella giusta misura e non pericolosamente «troppo» .
Il Corriere della Sera 07.02.11