Forma e sostanza, norme scritte e regole non scritte. Lo stop di Napolitano al decreto sul federalismo municipale corre lungo questi due binari, ma per una volta le parallele s’incontrano, disegnano un’unica linea nereggiante. Perché nessuna decisione di governo è mai apprezzabile se adottata in disprezzo delle procedure, ecco la morale della favola. E perché offendendo le modalità formali s’offende in realtà la sostanza stessa delle nostre istituzioni.
In punto di diritto, la questione è presto detta. C’è una legge (quella sul federalismo fiscale: numero 42 del 2009) che delega l’esecutivo a predisporre una rosa di decreti entro due anni dalla sua entrata in vigore. Volta per volta, lo schema di decreto approvato in Consiglio dei ministri va poi trasmesso al parlamento, per ottenere il parere di varie commissioni, tra cui la Bicamerale (15 deputati e altrettanti senatori). Il parere è obbligatorio per chi lo riceve, non per chi lo esprime: se le commissioni parlamentari non provvedono entro 60 giorni, la macchina governativa tira dritto. Quando tuttavia il parere è negativo, la corsa ritorna al punto di partenza: o il Consiglio dei ministri vara un nuovo decreto, chiedendo su questo testo l’opinione delle Camere; oppure tiene fermo il vecchio testo, ma ancora una volta ha l’obbligo di fare un altro giro in Parlamento, spiegando come e perché ha deciso di disattenderne il parere.
Che è successo viceversa durante l’ultimo pasticcio federale?In Bicamerale è finita pari e patta (quindici a quindici) e un minuto dopo è cominciata la rissa sulle regole, o meglio sul valore e sul vigore delle regole, ciascuno interpretandole come gli conviene. È la nostra sciagura nazionale: revochiamo in dubbio perfino la Costituzione scritta (opponendole il fantasma della Costituzione “materiale”), non sarà certo una norma di procedura a sedare l’azzeccagarbugli che ci alleviamo in seno. Sicché la maggioranza s’è inventata la categoria del non parere, leggendo il voto della Bicamerale come un non sì, o forse come un non no, insomma come una via di mezzo fra il sì e il no. Il pareggio – secondo quest’acrobazia interpretativa – significa che il parere non è mai stato espresso, dunque il governo può battezzare il testo definitivo del decreto, e infatti in quattro e quattr’otto lo licenzia. Una buona trovata? No, una non trovata, perché i regolamenti parlamentari sono chiari: in caso di parità la proposta messa in votazione s’intende respinta, punto e basta.
Ecco perché il capo dello Stato, a propria volta, ha detto basta. Quel decreto sul federalismo municipale era affetto da un vizio d’incostituzionalità grande quanto la Padania, ed era inoltre sommamente inopportuno, perché tirava un calcio sugli stinchi al parlamento. Un vizio di forma, per essere precisi, violando i cosiddetti limiti “ulteriori” della delega, sui quali la Consulta ha depositato negli ultimi decenni qualche tonnellata di sentenze. Ma le forme non sono mai neutrali: servono a disegnare un metodo, e il metodo serve a valorizzare il ruolo di ciascuno. In questo caso serve a non deprimere la dignità delle assemblee legislative, o almeno quel po’ che ancora ne è rimasto. Tuttavia il veleno inoculato nel corpaccione esangue delle Camere non cade soltanto attraverso l’iniezione dei decreti, dei voti di fiducia, dei maxiemendamenti che in ultimo sequestrano la stessa libertà dei parlamentari. Cade altresì attraverso un vento ostile, un gioco di sotterfugi e di tranelli, una violazione sistematica delle regole non scritte che compongono il galateo istituzionale.
E se il malcostume fosse ricambiato? Se il presidente Fini – per fare un solo esempio – cominciasse ad arringare l’aula di Montecitorio dall’alto del suo scranno? Se decidesse di partecipare a ogni votazione, né più né meno degli altri deputati? Nessuna norma scritta glielo vieta. C’è solo una consuetudine lunga un paio di secoli: l’ultimo discorso politico tenuto da un presidente della Camera intervenne il 6 agosto 1868, da parte di Lanza, contro la proposta per la Regia dei Tabacchi; l’ultimo voto d’un presidente della Camera fu depositato nel 1877, perché in quell’anno Crispi fece cancellare il proprio nome dall’elenco dei votanti.
Ma speriamo che nessuno pensi a ritorsioni. Abbiamo bisogno viceversa di recuperare il valore delle regole non scritte, giacché altrimenti quelle scritte vanno in necrosi, come un tessuto che non sia più irrorato dalla linfa. Abbiamo urgenza di ripristinare un clima di rispetto, ed è in conclusione questo il valore simbolico che circonda il gesto di Napolitano. Rispetto per le Camere, così come c’era una domanda di rispettare l’autorità del potere giudiziario quando Napolitano negò la propria firma al decreto per Eluana Englaro. Altrimenti la nuova Italia federale somiglierà all’Italia feudale, diventerà un’arena di poteri l’uno contro l’altro armati.
Il Sole 24 Ore 05.02.11