La coincidenza temporale è stata significativa. I due voti con cui ieri il Parlamento, prima, ha negato l’approvazione del decreto sul federalismo e, poi, ha respinto la richiesta di perquisire l’ufficio di uno dei tesorieri di Berlusconi hanno illuminato, con la massima chiarezza, la situazione in cui si trova la politica italiana. Da un lato, una fondamentale riforma, destinata a modificare radicalmente la struttura istituzionale del nostro Paese, a incidere sulle condizioni di vita degli italiani e sulle loro finanze, parte, se davvero riuscirà a partire, male, senza l’ampio consenso che sarebbe stato necessario. Dall’altro, i ripetuti tentativi dell’opposizione di sconfiggere, in aula alla Camera, la maggioranza si scontrano puntualmente con numeri risicati, sì, ma compatti e persino leggermente in aumento.
Quella coincidenza, peraltro, non è solo temporale, ma politica. Dimostra, infatti, come siano indissolubilmente intrecciate questioni legate al futuro dell’Italia, al suo sviluppo economico, alla sua coesione sociale e nazionale, e problemi legati alla figura del suo premier, Silvio Berlusconi.
Perché i rappresentanti della Lega e del Pdl, alla cosiddetta «Bicameralina» che doveva approvare il parere sul federalismo, hanno disperatamente cercato di modificare il testo proposto dal governo, pur di ottenere l’assenso di qualche parlamentare dello schieramento avverso. Senza troppo badare alla coerenza dell’intento federalista e alle conseguenze degli emendamenti proposti dall’opposizione. Con il risultato, del resto, di non raggiungere l’obiettivo sperato. Mentre il leader del Pd, Bersani, ha dichiarato, senza troppi giri di parole, la sua disponibilità ad approvare il federalismo se il presidente del Consiglio si dimettesse.
E’ vero che la condizione di precarietà e di confusione in cui versano il Parlamento e il Paese è dovuta anche a errori tattici evidenti nella strategia delle forze che sostengono il governo. Se il cosiddetto «lodo Alfano» fosse stato proposto in forme più accettabili e con legge costituzionale, forse Berlusconi, oggi, sarebbe già protetto dalle conseguenze delle sue vicende giudiziarie. E se, per il federalismo, non si fosse ricorso alla costituzione di una commissione «Bicamerale», nome che evoca già infausti ricordi di analoghi fallimenti, la strada di questa riforma sarebbe stata più agevole.
A questo punto, Bossi ha tutto l’interesse a rivendicare, nei confronti dei suoi elettori, una mezza vittoria invece che a dover ammettere una mezza sconfitta. Così si spiega la sua insistenza, ieri sera, nel chiedere a Berlusconi il varo immediato di un decreto legislativo sul federalismo, nonostante le perplessità politiche del Quirinale e quelle giuridico-parlamentari di alcuni costituzionalisti. Così si capisce come i margini di trattativa con la Lega del presidente del Consiglio, se vuole salvare il suo governo, siano ridottissimi e possano arrivare anche all’azzardato tentativo di cambiare la composizione di quella «Bicameralina», con le ovvie conseguenze di inasprire i già tesi rapporti tra i presidenti delle due Camere.
Al di là del pallottoliere in Parlamento, degli errori strategici e delle furbizie tattiche, dei rapporti tra Berlusconi e i magistrati, la domanda fondamentale, però, è un’altra: in questo clima politico e sociale si può davvero discutere delle virtù e dei difetti del federalismo, valutare le conseguenze sul carico fiscale che graverà sui cittadini, giudicare se sia davvero a rischio la solidarietà nazionale o se questi timori siano solo spettri strumentali per avversarlo? Quando una riforma di tale portata può dipendere dalle confessioni di una ragazza ospite a villa Macherio o da uno scambio indebito tra la sua approvazione e la scomparsa di Berlusconi dalla presidenza del Consiglio.
Non è solo il federalismo, e già basterebbe, a essere condizionato impropriamente dalla situazione politico-parlamentar-mediatica nel nostro Paese. L’ipotesi delle elezioni stravolge il significato di altri importanti provvedimenti, quelli sull’economia. Così, la proposta di una patrimoniale per ridurre il debito pubblico, maldestramente e masochisticamente avanzata da alcuni rappresentanti della sinistra, finisce per fornire un formidabile assist alla propaganda pre-elettorale di Berlusconi. Un aiuto, peraltro, di cui la bravura mediatica del premier non avrebbe bisogno, essendo largamente sufficiente per prevalere in qualsiasi dibattito televisivo. Ma anche le nuove proposte del presidente del Consiglio, sul tema dell’economia, vengono del tutto subordinate all’eventualità di un imminente voto. Sia per le sbrigative reazioni dei suoi oppositori, sia per l’evidente velleità di chi, in un periodo del genere, pensa che la principale preoccupazione di imprenditori, lavoratori e cittadini italiani sia la modifica dell’articolo 41 della Costituzione. Tra poco più di un mese si celebrerà la festa per i 150 anni dell’unità italiana. Davvero si poteva sperare in un clima migliore.
La Stampa 04.02.11