attualità, politica italiana

"Il «patto» di Berlusconi serve soprattutto a preparare il voto", di Stefano Folli

Non ci voleva molto per capire che la lettera ben argomentata di Silvio Berlusconi al «Corriere della Sera» aveva tre obiettivi. Primo, recuperare qualcuno dei temi liberali, connessi a una concezione dinamica dell’economia e dello sviluppo, che il Pdl ha quasi sempre trascurato nei suoi anni al governo del paese. Secondo, ravvivare questi stessi temi allo scopo di riprendere il contatto con una base sociale, legata al mondo dell’impresa, che oggi non nasconde la sua delusione di fronte al magro bilancio dell’esecutivo.
Terzo, dimostrare che nessun «patto bipartisan» è possibile con la sinistra, sia pure moderata. Per cui la «rivoluzione liberale» può tornare a essere, diciassette anni dopo, un argomento di campagna elettorale. Forse niente di più: una bandiera da sventolare sottraendola agli avversari.
Tutto questo era piuttosto scontato. Berlusconi ha impiegato mezza giornata per passare da un giudizio positivo su Bersani (l’uomo sensibile alle liberalizzazioni) a una sentenza di condanna: «È insolente e irresponsabile». Ma è chiaro che bisogna distinguere il merito delle proposte dalla loro cornice politica. Nel merito i temi riproposti dal premier definiscono – e non da oggi – la strada giusta per ridare slancio all’economia. Tuttavia non ha torto Casini quando dice: «Ma il governo ha avuto quasi tre anni di tempo per avviare questo programma. Perché non lo ha fatto?».
Per quanto riguarda il quadro politico, invece, è talmente sfilacciato che il primo a non nutrire troppe illusioni è proprio Berlusconi, assediato e isolato come mai gli era capitato nella sua lunga stagione politica. Allo stato delle cose, l’opposizione – nelle sue diverse espressioni – non ha alcun interesse a rilegittimare il presidente del Consiglio, ritenuto ormai non più credibile. Del resto, come si può pensare che ci sia spazio per accordi trasversali quando si marcia dritti verso le elezioni anticipate?
Berlusconi sta cercando di definire la sua piattaforma elettorale e lo stesso fa il Partito Democratico. Soprattutto da quando D’Alema ha rotto gli indugi e ha riconosciuto che andare a votare è meglio di una lunga e rischiosa stagnazione. Lo scenario si è rovesciato rispetto a un paio di mesi fa. Oggi è l’arco degli oppositori (dal Pd al «terzo polo» a Di Pietro e Vendola) che si dice pronto alle urne. E sarebbe strano il contrario, considerando gli affanni senza precedenti del premier.
Viceversa il partito berlusconiano ha smesso da tempo di minacciare le elezioni e segue l’indirizzo di un leader convinto di poter resistere. Ma tutto è appeso a un filo. Un filo che porta all’inchiesta giudiziaria su Arcore e a un passaggio cruciale come il federalismo fiscale. Si è capito che nella Lega esistono due posizioni diverse, quella di Maroni e quella di Calderoli. Il primo propenso a chiudere con il voto lo psicodramma politico, così da inaugurare al più presto una stagione nuova: anche senza Berlusconi, si suppone. Il secondo disposto quasi a tutto per difendere nel merito il federalismo (ma non a spezzare l’alleanza con il premier) e determinato a non arrendersi in Parlamento.
Non basterà il probabile voto sfavorevole di giovedì al testo Calderoli, nella commissione bicamerale, per chiudere la legislatura. Si andrà avanti e il governo porterà in aula i decreti federalisti. Ma il filo che sorregge il governo sarà ancora più tenue. Almeno fin quando non avrà parlato Bossi.

Il Sole 24 Ore 01.02.11