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"Linguaggio, ecco perché Berlusconi usa le parole postribolo o insufflare", di Leonardo Tondelli

Ci si abitua a tutto, col tempo, e il giorno che Berlusconi a rete unificate mostrerà le chiappe ai giudici noi spegneremo la tv sbadigliando, ormai assuefatti. Nel frattempo la scorsa settimana si è limitato a telefonare in diretta a Gad Lerner rimproverandogli di condurre non una trasmissione ma un “postribolo”, e di farlo in modo “spregevole, turpe, ripugnante”. Diamo per scontato che l’intervento di Berlusconi sia stato estemporaneo, e che lui abbia usato nella foga le prime parole che gli venivano in mente; al limite se le sarà appuntate su un foglietto prima di prendere la linea. Non suonano comunque incredibilmente sue?

In effetti, chi altri in tv può permettersi, al colmo dello sdegno, di usare la parola “turpe”? Forse lo stesso presidente del Milan che si compiace di pronunciare “giuoco”, che si lamentava che qualcuno “insufflasse” notizie tendenziose ai quotidiani stranieri. Berlusconi del resto può dire quello che vuole, essendo il capo. Chiunque altro vada in tv, soprattutto sui suoi canali (cioè tutti, ormai), ha imparato da anni a limitarsi, a ridurre il proprio vocabolario a quelle mille, quelle cinquecento parole che sono più che sufficienti a vendere qualcosa a un “bambino di undici anni, neanche tanto intelligente” (da sempre il target ideale Mediaset). Quindi: non si dice “postribolo”, ma “bordello”, e meglio ancora “casino”; non “spregevole”, ma “stronzo”, che è effettivamente cosa spregevole, o “capra” quando si vogliono evitare grane legali. Eppure il Capo non parla proprio così. L’insipida neolingua televisiva l’ha imposta a tutti, tranne che a sé stesso.

Il fatto che B. parli strano non significa che parli difficile. Le sue stravaganze lessicali non appartengono al gergo grigio degli intellettuali di fine Novecento; non sono i soliti termini vacui o incomprensibili evasi dall’ambito accademico. Berlusconi pesca piuttosto nel melodramma ottocentesco, nel repertorio lessicale al tempo stesso magniloquente e popolare dei libretti d’opera e dei romanzi d’appendice. Gli arcaismi che sceglie o si lascia sfuggire diventano immediatamente comprensibili, grazie al contesto e alla sintassi sempre lineare. Quando dice “insufflare” capiamo tutti al volo cosa intende, anche se non abbiamo mai sentito la parola: la rarità del termine però aggiunge al messaggio qualcosa di più. È quel dettaglio dissonante che in un qualche modo rafforza la verosimiglianza della frase, e in gergo televisivo si direbbe che “fora”: attira l’attenzione di spettatori e commentatori, in nove casi su dieci finisce sui titoli dei giornali e a volte crea veri e propri tormentoni.

Due giorni prima dell’intemerata berlusconiana all’Infedele, sullo stesso canale Pier Luigi Bersani aveva confessato a Irene Bignardi di avere anche lui parlato ‘difficile’ in gioventù. Del resto il segretario PD si è fatto le ossa nel periodo delle “convergenze parallele”, quando il linguaggio della politica era un idioletto comprensibile a pochi. Col tempo ha saputo rinnovarsi, eliminando i tecnicismi e cercando slogan tra i modi di dire della quotidianità. Lo sforzo di voler parlare a tutti c’è, non si può negare, ma non si può nemmeno fingere che non sia uno sforzo. Anche Veltroni, l’indomani, al Lingotto, ha regalato un altro dei suoi lunghissimi discorsi in cui è riuscito a parlare di tutto, inserendo aneddoti anche gustosi, ma in un italiano rigorosamente medio, un po’ pedestre, mondato di ogni stravaganza. Insomma, mentre Veltroni e Bersani censurano consapevolmente il proprio dizionario nel tentativo di farsi capire da un non meglio identificato italiano medio, Berlusconi se ne frega e attacca ai lati, mescolando alto e basso, “turpe” e “coglione”, “postribolo” e “bunga bunga”. La differenza tra le due manovre assomiglia a quella tra certe fiction rai dove tutti (studenti, professori, bidelli) parlano lo stesso irrealistico italiano medio, appena appena impreziosito da qualche intonazione dialettale, e i feuilleton Mediaset con Garko e la Arcuri, che sfoggiano termini desueti come chincaglieria non sempre comprensibile, ma straordinariamente decorativa. Alla fine c’è un pubblico per entrambi i prodotti, ma il secondo sembra ancora il più popolare.

E la teoria qual è? Beh, forse Berlusconi ha vinto quando ci ha convinto che gli italiani stessero al centro, e che per raggiungerli avremmo dovuto rinunciare alle nostre parole difficili, tecniche, espressive. E mentre ci autocensuravamo alla ricerca del fantomatico Centro lui operava nel senso opposto, prosperando ai bordi, riuscendo nell’impossibile impresa di conciliare gli estremi, nazionalisti e leghisti, imprenditori e disoccupati, cattolici e puttanieri, mescolando barzellette e melodramma – una forza centrifuga che spingeva verso l’esterno, verso l’estremo, schiacciandoci al centro in una morsa. Se invece di seguire i suoi consigli avessimo ragionato sul suo linguaggio, chissà, forse oggi ci sarebbe rimasto qualche elettore in più. O almeno qualche parola in più, che è meglio di niente.

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