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"Il Cigno nero d'Egitto", di Lucia Annunziata

Il Cigno nero che proprio in questi giorni a Davos è stato appassionatamente cercato dai cervelloni della economia mondiale, si è materializzato – a sorpresa com’è nella sua natura – ed ha allargato le sue ali sul Nilo. Il Cigno nero, nel linguaggio di Davos, è una figura simbolica statistica, «un evento ad alto impatto, bassa probabilità, bassissima prevedibilità». Esattamente quello che possiamo dire di quello che è successo ieri al Cairo.

Il faraone Mubarak dopo trent’anni di immobilità ha imboccato in poche ore il viale del tramonto. Ha nominato un vicepresidente, il primo nella sua lunga storia politica, mentre una piccola flotta di Lear Jet privati, come in tutti i fine regime, si levava in volo dall’aeroporto cairota con a bordo i suoi figli e i ricchi del Paese, in fuga con le loro famiglie, i loro capitali e le loro Vuitton. La fine formale del regno del Faraone non è stata dichiarata ma certo ce ne sono tutte le sembianze: le decisioni di ieri hanno comunque fatto giustizia di ogni ipotesi che Mubarak si ripresenti alle presidenziali, o che suo figlio Gamal imbocchi la strada della dinastia.

Che aspetto e quale durata avrà la transizione appena iniziata è ora la domanda. Ma, più in generale, il vero dubbio riguarda il come e il perché del materializzarsi del Cigno nero, cioè di una rivolta che nessuno aveva previsto e che nessuno sa ora come gestire.

Sulla transizione, ci dice qualcosa l’uomo che è stato scelto a guidarla. Omar Suleiman in quanto capo della intelligence egiziana, gestisce da decenni i dossier più delicati di tutto il Medioriente, a partire da quelli dei rapporti con Israele. E i dossier dell’intero Egitto, su cui governa de facto, da quasi altrettanto tempo, insieme a Mubarak. È un uomo stimato dalla corolla di alleati di cui si circonda l’Egitto, nel Paese gode della reputazione di non essere corrotto, ed è capace di tenere nelle mani l’equilibrio fra esercito e potere. Ma non costituisce, come si vede, alcuna rottura con il passato, nemmeno nella età – ha 74 anni, solo otto meno di Mubarak. Il suo nome era infatti già da tempo in cima alla lista dei successori dell’attuale Presidente.

In altri tempi, in un Egitto steso al sole a servire i suoi turisti, coperto da una sottile verniciatura di pace, Suleiman avrebbe avuto la sua chance. L’intera operazione di successione fatta ieri sembra invece essere il classico «troppo poco, troppo tardi».

La maggiore sorpresa di tutte, il Cigno nero appunto, rimane così il movimento che continua a riempire le strade e le città. A cinque giorni di distanza rimane infatti forte, imprevedibile, ma soprattutto illeggibile. Nella sua identità pubblica non è finora rifluito in nessuno dei tradizionali filoni della politica egiziana. O meglio, ne presenta tutte le tracce, ma non ne è definito: ci sono i fratelli musulmani, i militanti democratici del 6 aprile, i comunisti, i trotzkisti, i socialisti, i sindacati degli insegnanti, degli impiegati, cioè tutte le sigle di un mondo molto politicizzato e di grande tradizione organizzativa qual è l’Egitto; eppure nessuna di queste identità è dominante.

Forte rimane soprattutto la vastità della protesta, la potenza della rabbia, la resistenza a rientrare nei ranghi. In queste ore la città è attraversata da squadre armate, rapine, l’assalto alle case dei ricchi; emerge la tendenza a un caos violento, che non si sa se spontaneo o manovrato, di popolo o di provocatori. Manovrato o meno che sia, queste azioni tolgono però il tappo a una tendenza cui finora in Egitto non era mai stato permesso di emergere: lo scontro armato di strada, la tensione sociale fra gente e istituzioni, ricchi e poveri, con tutte le sue potenziali derive.

In questo senso, questa rivolta egiziana che scuote tutto il mondo arabo del Nord Africa può davvero rivelarsi un fenomeno nuovo. Per capire il quale più che rivolgere gli occhi al passato, a Tienanmen piuttosto che alle rivolte nazionaliste post-coloniali, occorre guardare proprio agli Anni Duemila, ai successi e insuccessi della globalizzazione. In cui la crisi finanziaria del 2007 fa da contrappunto amaro allo splendore della rivoluzione Internet. In cui all’inclusione tecnologica fanno da contrappunto l’esplosione della disoccupazione e la crescita vertiginosa dei prezzi delle materie prime alimentari. Per tornare a Davos, proprio questa miscela veniva indicata come il materiale da cui nascono i Cigni neri.

In fondo, a ben guardare, quello che succede in Tunisia, Egitto e altrove in queste ore ha meno a che fare con l’essere «arabi» e molto più con le proteste che hanno attraversato nei mesi scorsi l’Europa del default del debito pubblico. Audace connessione? Forse. Ma se così fosse, quanto ancora più preoccupante sarebbe quello che sta succedendo.

La Stampa 30.01.11