In Egitto continuano gli scontri tra manifestanti e autorità, tra carri armati in strada, che ha causato già 10 morti e 870 feriti. I cortei di protesta si sono tenuti in tutto il paese – e la notizia è in sostanza confermata da al-Jazeera e dal Guardian. Senza precedenti, peraltro, il black-out imposto dal governo sulla rete Internet.
Nonostante sia scattato ovunque il coprifuoco, per le strade del Cairo i dimostranti hanno fatto in tempo ad incendiare la sede del partito del presidente Hosni Mubarak, che è stata incendiata. Incidenti gravi anche a Suez, dove i carri armati dell’esercito sono stati presi d’assalto da dozzine di manifestanti, contro i quali i militari hanno aperto il fuoco. Non si sa ancora quale sia stata la sorte toccata a Mohammed el Baradei, premio Nobel per la Pace 2005: rientrato in patria ieri da Vienna, l’esponente dell’opposizione sarebbe stato – secondo alcune fonti – messo agli arresti domiciliari; quattro giornalisti francesi sono inoltre finiti in prigione.
A nome del Pd, Piero Fassino, presidente del Forum internazionale, ha messo in evidenza che “c’è turbamento e allarme per il fermo di El Baradei e per il protrarsi di una situazione critica, esposta a rischi di gravi tensioni e conflitti. Il sommovimento politico che scuote il mondo arabo – ha aggiunto Fassino – indica una domanda di cambiamento che non può essere ignorata e a cui occorre siano date risposte nel segno della democrazia e della libertà”.
Inedita la decisione del governo di ‘spegnere’ Internet e la rete telefonica cellulare: una compagnia britannica operante in Egitto ha infatti fatto sapere che il governo ha ordinato a tutti gli operatori di sospendere il servizio in determinate aree del Paese.
È stata dunque contraddetta in maniera clamorosa la tesi degli esponenti dell’esecutivo guidato da Mubarak, i quali avevano negato che Facebook e Twitter fossero stati ‘boicottati’ per impedire ai manifestanti di scambiarsi informazioni utili alle loro azioni. Il fermo di Mohammed El Baradei, leader dell’opposizione al presidente egiziano Hosne Mubarak, “vuol dire che il regime e’ alla massima tensione immaginabile”. Lo ha detto Romano Prodi, ex premier dell’Ulivo e gia’ presidente della Commissione europea, parlando con i giornalisti a Fiesole in occasione della commemorazione dell’ex ministro Tommaso Padoa-Schioppa all’Istituto Universitario Europeo. “C’e’ grande preoccupazione -ha aggiunto Prodi- perche’ l’Egitto e’ un Paese chiave per tutto il mondo islamico. E’ un Paese chiave non solo per il numero di abitanti ma anche per i problemi di convivenza, per le alleanze con il mondo occidentale e per la forte presenza della fratellanza musulmana”.
“Ci sono grandi problemi nella parte intermedia dell’Egitto, nella periferia del Cairo. L’Egitto e’ un Paese che ha grande influenza in tutto il mondo islamico -ha ricordato Prodi- molto sfaccettato, in cui ci sono sempre state elezione controllate e, quando e’ stata data la possibilita’ di presentare liste alla fratellanza musulmana, questa ha registrato un grande successo”.
Prodi ha poi ricordato: “c’e’ una successione difficile a Mubarak; se ne parla da mesi sia per i motivi di complicazioni politiche che per i motivi di salute personale del presidente stesso”. L’ex presidente del Consiglio ha poi commentato anche la censura ad internet ordinata dal governo egiziano: “con le nuove tecnologie, tra l’altro, si apre un capitolo nuovo. La polizia puo’ controllare due o tre media, ma non tutta la miriade di nuovi media”.
“Prodi ha ragione, la politica euromediterranea dell’Unione europea ha fallito mentre quella del governo Berlusconi non è mai cominciata”. Lo dichiara Sandro Gozi, responsabile politiche comunitarie del PD analizzando l’attuale crisi in Egitto.
“La politica di vicinato europea era stata concepita, innanzitutto, come un nuovo strumento di democratizzazione e di dialogo interculturale, ma i governi europei e la Commissione Barroso non hanno mai saputo né voluto sfruttarne il potenziale, limitandosi ad uno sterile rapporto con i regimi arabi, oggi sotto pressione dalla Tunisia all’Egitto.
Vogliamo ora –prosegue Gozi – un segnale di svolta, che ancora non vediamo, da parte di Catherine Ashton e della diplomazia europea: basta con una realpolitik che non ha garantito né vera stabilità, né vero sviluppo. Forse anche il ministro Frattini, anziché lodare Gheddafi e perdere tempo con delle carte “irrilevanti” di Santa Lucia, come le ha definite oggi la Procura di Roma, potrebbe occuparsi di più dei nostri interessi nel Mediterraneo.
La partita che si sta giocando sulle sponde del mediterraneo – conclude Gozi- è di primaria importanza sul fronte economico ma lo è ancor di più su quello geostrategico. L’instabilità dell’area potrebbe, tra l’altro, determinare anche enormi flussi migratori. Cosa farebbe il nostro Paese, porta dell’Europa continentale? Oggi, chiamarsi fuori da processi così importanti è da irresponsabili”.
Già, ma intanto Frattini in Parlamento ha tempo di relazionare solo sulla casa di Fini.
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“Satana non è più l’America”, di Maurizio Molinari
L’America segue con passione l’affermarsi di una piazza araba che chiede libertà e democrazia anziché maledire lo Zio Sam. Ciò che accomuna i resoconti dei media, dal Washington Post ai maggiori network tv, e le analisi dei centri studi, dalla Brookings Institutions alla Fondazione Carnegie, è la descrizione di una novità: da Tunisi al Cairo, da Alessandria a San’a, le nuove generazioni arabe manifestano non contro i Satana dell’Occidente ma a favore di più diritti, politici ed economici. «Le crisi interne al mondo arabo hanno preso il sopravvento sull’ostilità verso l’America e sul conflitto israelopalestinese nei cuori di milioni di musulmani» spiega Eliott Abrams del «Council on Foreign Relations». Abituati a considerare le manifestazioni oceaniche di musulmani come nemiche, gli americani scoprono che «la strada araba oggi ha valori comuni con la Main Street del Midwest» osserva Fuad Ajami, orientalista della Johns Hopkins University. Le notizie frammentarie di manifestazioni pro-democratiche che arrivano da Giordania e Siria consentono al «Center for American Progress» di John Podesta, molto vicino alla Casa Bianca, di affermare che «la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia sta diventando qualcosa di più ampio».
E’ in questa cornice che la Casa Bianca di Barack Obama esprime due priorità nell’affrontare quanto sta avvenendo. Primo: far prevalere i diritti universali dell’individuo. Secondo: impedire che ad avvantaggiarsi della fase di instabilità siano le cellule jihadiste apparentate con Al Qaeda. L’auspicio di un rispetto dei «diritti universali» è stato espresso da Obama a proposito della Tunisia e dal Segretario di Stato Hillary Clinton riguardo all’Egitto diventando il concetto che ogni esponente del governo, dal vicepresidente Joe Biden al portavoce Robert Gibbs, ripete per commentare quanto sta avvenendo. L’origine di tale approccio è nel discorso che Obama pronunciò all’ateneo di Al-Azhar al Cairo il 4 giugno 2009 quando disse: «Credo fermamente che ogni popolo abbia diritto a dire ciò che pensa, a giudicare i suoi governanti, ad avere uno Stato di Diritto ed alla libertà di scegliere come vivere. Non sono solo idee americane ma diritti umani e per questo li sosteniamo ovunque». Il 44° Presidente degli Stati Uniti è convinto che nel mondo arabo e musulmano i cambiamenti democratici possono arrivare dall’interno – come avvenuto in Europa, Asia e Sud America – e per favorirli scommette sul sostegno all’idea di «diritti universali dell’individuo» connaturata alla Costituzione americana, sfruttando ogni occasione per far sapere ai popoli del Maghreb e del Medio Oriente che sono le «libertà di espressione, assemblea e fede» ad accomunare ogni essere umano.
In occasione delle proteste di piazza in Iran di due anni fa contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, Obama scelse un profilo basso che politicamente lo fece apparire debole e non piacque agli americani ma ora l’approccio è rovesciato: il sostegno alle aspirazioni democratiche prevale sulla Realpolitik a conferma della scelta di individuare, anche nella politica estera, una terreno bipartisan con i repubblicani. Ciò non significa tuttavia sostenere sbrigativamente la rimozione di un leader alleato come Hosni Mubarak che, osserva l’arabista Juan Cole, «non è il tunisino Ben Alì», essendo l’Egitto la nazione più importante del mondo arabo.
La Casa Bianca teme che un crollo improvviso di Mubarak possa favorire i gruppi jihadisti, molto radicati nella terra natale di Ayman al Zawahiri vice di Bin Laden, e preme dunque per disinnescare la crisi attraverso un’accelerazione delle riforme proprio da parte di Mubarak, in vista delle imminenti presidenziali. Washington in queste ore sta facendo pressione per ottenere dal Cairo una svolta democratica – ovvero la garanzie di elezioni davvero libere – capace di porre fine agli scontri aprendo la strada alla transizione. Da qui l’attenzione della Casa Bianca per il ruolo delle forze armate egiziane – dal 1979 finanziate e armate dagli Stati Uniti – considerate in questo frangente come il baluardo contro un caos che potrebbe favorire i jihadisti. Resta da vedere se Mubarak farà ciò che Obama gli sta chiedendo.
La Stampa 29.01.11