Dopo ogni annuncio in pompa magna ecco i tagli, e poi i crolli e nei casi più drammatici anche le inchieste. Fenomenologia del filosofo che ha trasformato il permanente in transeunte…
I galantuomini della cricca afflitti dall’inchiesta sulla protezione civile lo chiamavano «quello che lavora con Nastasi». Nessuna definizione scolpisce meglio. Sandro Bondi come ministro dei Beni e delle Attività Culturali (Mbac): un’ombra nascosta dietro il suo capogabinetto – il dinamico e discusso Salvo Nastasi –, mentre l’intero settore culturale italiano si sfarinava, tra la drammatica diminuzione delle risorse economiche pubbliche e gli sperperi. Predicatore di efficienza, nemico giurato dei cosiddetti privilegiati della cultura e quindi ministro assenteista quant’altri mai, Bondi in circa tre anni al Collegio Romano c’è stato poco, mostrando fin da subito un sovrano disinteresse per il suo dicastero.
Il che non gli ha impedito di dettare le sue surreali linee guida per il Mbac già dalla primavera del 2008 quando, fresco di nomina e ancor gonfio della vittoria elettorale, al Teatro Argentina di Roma ha incontrato il mondo dello spettacolo per la prima della sua serie di ramanzine.
Si capì subito che per le attività culturali – cinema, teatro, musica, danza, opera – sarebbero stati, come poi è accaduto, anni nerissimi. Il ministro era interessato ad altro: «Vorrei impiegare i fondi a mia disposizione per cose meno transeunti – disse allora –, per esempio nell’archeologia», gettando non una luce su quanto voleva fare, ma un’ombra grottesca su quanto poi è accaduto. Vuoi perché quei «fondi a mia disposizione», zacchete!, furono subito tagliati, vuoi perché da allora nei siti archeologici più importanti, da Pompei a Roma, si sono susseguiti vorticosamente incidenti, commissariamenti, crolli, inchieste, e perfino l’Istituto Superiore del Restauro è stato sfrattato dalla sua storica sede.
Nell’autunno 2008 per la sua prima intervistona da ministro – altra ramanzina stavolta contro il teatro d’opera –, accolse il giornalista della “Stampa” brandendo un pingue volume del vocabolario della Crusca e ieratico statuì: «Questo rimane…».
Estate 2010: arizacchete!, eccoti tagliati anche i fondi per la pregiata Accademia della Crusca e tutti gli altri istituti di cultura. Così alla fine ingenerosamente gli è stato ascritto un potere arcano, iettatorio per intenderci. I soliti ingrati certo, ma almeno si riconosca a quest’uomo la capacità di trasformare il permanente in transeunte, o meglio estinto. Mentre a uso dei media largiva i suoi balzani vaticini, in anni molto critici Bondi ha abbandonato il ministero nelle mani di funzionari e funzionarietti, tutti rigorosamente
scelti tra i burocrati –ma oggi si definiscono manager–, e tutti accessoriati con scrupoli a tasso assai variabile.
A perenne monito restano quasi tre anni di inchieste, di appalti e concorsi truccati e annullati, di inefficienze nella gestione del patrimonio dell’Aquila dopo il terremoto, di consulenze e di contratti ad amici e perfino ai parenti dell moglie, della ineffabile direzione generale alla valorizzazione del patrimonio – affidata a Mario Resca ex manager McDonald –, coronati dall’intero sistema spettacolo al collasso.
A fronte di questo Bondi ha inveito contro la “sinistra” e chiunque adombrasse una critica, arrivando a dichiarare: «In consiglio dei ministri mi sono battuto contro i tagli dei finanziamenti alla cultura!». E lasciamo perdere che in quella sede pare che Tremonti, Brunetta e Calderoli si dessero di gomito e ridacchiando in quell’atmosfera cameratesca che tanto piace a Silvio facessero oggetto di scherno il loro collega. Se, come dice lui, si è veramente battuto, la verità è che Bondi ha fallito. Una disfatta, oltretutto da lui stesso avallata, quando nei primi due anni come ministro ha più volte giustificato come necessari i tagli al Ministero della cultura, tagli causati dalla crisi e che sarebbero stati orizzontali –vale a dire eguali per tutti i ministeri. Ma orizzontale sarà lui: durante il mandato di Bondi infatti la quota parte del bilancio dello stato per il Mbac è scesa da 0,29% (2007 ultima finanziaria del centro sinistra) allo 0,21 del 2010, al previsto 0,19 del 2011. Altre voci evidentemente salivano. Le cose quindi andranno ancora peggio: dopo decenni di
pareggi perfino il Teatro alla Scala rischia un bilancio in passivo –zacchete tris!–, Bondi l’aveva già “battezzato”, definendolo «un’eccellenza».
L’Unità 27.01.11
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«Povera cultura, Bondi è salvo tra assenze e flop del Terzo polo», di Federica Fantozzi
La mozione di sfiducia viene bocciata con 314 no contro 292 sì. Più le due astensioni della Svp. 22 i voti di scarto. Rissa sfiorata tra Fli e Lega. IdV: merita un calcio nel sedere. Il Pd: lasci stare Berlinguer.
Fallisce la tenaglia tentata dalle opposizioni contro Sandro Bondi. Alla prova dei voti gli assenti, l’astensione della Svp e il gruppo dei Responsabili salvano il ministro dei Beni Culturali. E il Terzo Polo, alla prima prova di identità compiuta, si squaglia.
La mozione di sfiducia individuale viene bocciata con 314 no contro 292 sì. Più le due astensioni della Svp, che con l’ennesima capriola dopo aver annunciato la sfiducia si lascia rincuorare dall’attivismo di Bondi sulla rimozione delle vestigia fasciste altoatesine e dai pannelli esplicativi ai monumenti bolzanini.
La maggioranza sarà pure inchiodata a quota 314, come dicono i finiani rimembrando gli identici numeri del 14 dicembre contro Berlusconi. Ma stavolta i voti di scarto sono 22, non 3. Un terzo oltre le più infauste previsioni di una pur annunciata sconfitta. Al punto che già dal mattino il leader Udc Casini, fiutata l’aria, si era smarcato con un «anche i bimbi dell’asilo sanno come finirà…». E in aula, al momentodelle dichiarazioni di voto, né segretari né capigruppo ci hanno messo la faccia. Tra assenti e in missione, nell’Udcmancano Pezzotta (malato), Ria, Ricardo Merlo, Volonté relatore a Strasburgo. Due lib-dem, Tanoni e Melchiorre. I Misti Guzzanti e Gaglione. Nell’Mpa 4: Misiti, Latteri, Lombardo e Commercio. Nel Fli le due neo-mamme Bongiorno e Cosenza, Luca Barbareschi (che aveva espresso pubbliche perplessità) ma anche la colomba Giuseppe Consolo e Guido Paglia. Nel Pd 4 assenti annunciati in una nota per malattia: Rossomando, Fedi, Capano, Mastromauro. Ci sono invece Parisi con febbre e l’altra neo-mamma Federica Mogherini.
Nel PdL manca solo Zacchera. Bondi, che ha insistito con Cicchitto per evitare slittamenti della mozione decisiva per il suo destino, fa un discorso dai toni duri: «Vi importa davvero la cultura o tentate cinicamente di dare una spallata al governo? ». Si asciuga il sudore, legge gli appunti, sottolinea che per la prima volta si vota la sfiducia a un ministro «non per responsabilità individuali ma collegiali, perché sarei accondiscendente ai tagli di Tremonti».
Segue un dibattito surreale dove Bondi vuole riformare il ministero trasformandolo da «ostacolo» in «soluzione», il dipietrista Zacchera cita le intercettazioni della “cricca” e Fini lo richiama all’ordine per turpiloquio, il collega Barbato gli fa da “gobbo” televisivo innalzando un cartello sul Villaggio Preistorico di Nola finché i commessi lo disarmano. La Repetti, compagna del ministro in giacca bluette, si agita. Zacchera vorrebbe dare a Bondi un metaforico calcio nel sedere, e il centrodestra insorge.
I ministri arrivano tardi, Tremonti senza sedia incombe tra Bossi e Maroni, proprio sopra il posto vuoto di Berlusconi (che si materializza solo per votare) in plastica rappresentazione di un ipotetico futuro. Granata cita Ezra Pound, il filosofo professor Buttiglione loda Checco Zalone, il piddino Ventura invita il ministro a «lasciar stare» l’etica berlingueriana, Cicchitto rievoca il crollo della torre di Pavia sotto il governo De Mita. Nucara prende la parola per annunciare che la diaspora Repubblicana è finita, si è riunito con Luciana Sbarbati «e se lei fosse qui voterebbe come me la fiducia a Bondi».
Arriva il momento del voto. Parte la chiama. I finiani Granata e Lo Presti quasi vengono alle mani (di nuovo) con i vicini del Carroccio e poi si chiariscono. Bocchino vota tra i buuuuh del PdL. Fini ha ceduto lo scranno a Lupi che fa le prove tecniche di successione: «Colleghi, vorrei commenti e non ululati, e lo dico io con il mio cognome».
da l’unità del 27.1.11