Bondi non è stato sfiduciato, e resterà ministro. La Camera l’ha salvato con 314 voti. Coloro che gli contestavano la gestione dei beni culturali, e i crolli a Pompei, si sono fermati a quota 292. Questi i freddi dati di cronaca. Ma se non vogliamo prendere in giro i lettori (e gli elettori), dobbiamo aggiungere che, benché la giornata parlamentare di ieri ruotasse attorno a questa votazione, del ministro Bondi e tanto meno dei crolli a Pompei ieri alla Camera non importava niente a nessuno. L’attacco a Bondi era in realtà un attacco al governo; e la difesa di Bondi una difesa del governo.
E dunque da un certo punto di vista si può dire che ieri Berlusconi ha ottenuto una nuova vittoria. Il voto di sfiducia al ministro dei Beni culturali era stato annunciato come una specie di giorno del giudizio. Il quarto, dopo quelli in cui s’è votato sul sottosegretario Caliendo (4 agosto scorso), sui cinque punti del programma (29 settembre), e sul governo rimasto orfano dei finiani (14 dicembre). Tutte prove di ribaltone, e tutti fallimenti. Il governo Berlusconi ha sempre dimostrato di avere i numeri per resistere. Magari con difficoltà; ma comunque resiste.
Ma può per questo Berlusconi dirsi tranquillo? È evidente a tutti che, come dicevamo, nonostante le apparenze Bondi e le sue politiche culturali ieri non erano i protagonisti della scena ma solo comparse. Così come comparse erano i pur volonterosi parlamentari presenti al voto. I veri protagonisti della giornata politica erano altri personaggi: quelli di cui si occupano le nuove 227 pagine che la Procura di Milano ha inviato alla Camera sull’ormai celeberrimo «caso Ruby». Sarà anche sgradevole dirlo perché le istituzioni ne escono mortificate: ma è evidente a tutti che il futuro del governo ormai non dipende più da quello che succede alla Camera e al Senato, ma da quello che i magistrati accertano e che i giornali pubblicano. Nella Prima Repubblica a un certo punto si cominciò a dire che la politica non la si faceva più in Parlamento ma nelle segreterie dei partiti. Oggi non la si fa più nemmeno nelle segreterie dei partiti, ma nei tribunali e nella coscienza dell’opinione pubblica.
Berlusconi non può tirare il fiato per il voto di ieri alla Camera, perché le nuove carte della Procura sono ben più preoccupanti per lui che non la perdita di un ministro. Già quello che si era letto nelle prime trecento pagine era a dir poco imbarazzante. Quello che comincia a trapelare dalle carte di ieri è ancora peggio. È desolante, sconfortante. A inchiesta iniziata e perfino a inchiesta ormai pubblica, non si è placato il giro di telefonate con cui si comunicavano compensi alle ragazze, assegnazioni di appartamenti, convocazioni di riunioni ad Arcore per stabilire una linea difensiva. Colpiscono in particolare le frasi pronunciate (e naturalmente intercettate) da Nicole Minetti, la consigliera regionale della Lombardia accusata di aver fatto da maîtresse. A scandalo scoppiato si sfoga, dice che si vuole dimettere, che vorrebbe avere una vita normale – fidanzarsi, sposarsi, avere figli – e non sa come fuggire dal pasticcio in cui s’è cacciata. Dice cose terribili sul premier, che accusa di averla messa nei guai e poi scaricata.
Non sappiamo se tutto questo comprenda dei reati. Ma sappiamo che in questi ultimi dieci giorni il presidente del Consiglio – e tutta una sfilza di testimoni interrogati dai suoi avvocati – hanno assicurato che non solo non ci sono reati, ma anche che non c’è neppure nulla di indecoroso. Ci hanno parlato di serate innocenti, di allegre canzoni, di film visti con un lettore dvd come fanno dopo cena milioni di piccoli borghesi. E invece il quadro che emerge è tutt’altro, e riesce davvero difficile (per non dire altro) sostenere a oltranza la tesi dell’equivoco, della millanteria, dello scherzo telefonico.
Non è tanto una questione morale, quanto una questione di credibilità politica. L’inchiesta di Milano sembra raccontarci il crollo di una classe dirigente, un crollo al cui cospetto quelli di Pompei contestati al povero Bondi sono ben poca cosa.
La Stampa 27.01.11