“La commemorazione ufficiale dell´Olocausto ormai è diventato solo un esercizio mnemonico. Manca la presa di coscienza”. Lo storico sociale dell´Istituto Cervi s´interroga su quanto sia ancora adeguata la ricorrenza del 27 gennaio
“Il bilancio dell´iniziativa non è da considerare negativo Ha avuto il merito di estendere enormemente la sensibilità sulla Shoah ma non basta più”. “Non siamo stati capaci di costruire una storia narrata popolare. La nostra è una storiografia litigiosa che ha ceduto al modello della tv”.La giornata della memoria, il 27 gennaio, compie dieci anni. E se indiscusso appare il successo dell´iniziativa sul piano delle celebrazioni e della produzione editoriale, ci si comincia a interrogare sull´efficacia su un anniversario sempre più schiacciato sul «marketing memoriale». Un consumo veloce e rassicurante. Una storia usa-e-getta piegata a un utilizzo autoassolutorio piuttosto che un´indagine perturbante dentro l´orrore che ancora ci appartiene. Un martirologio che rischia di rimanere muto sulle inquietudini del presente.
Dall´Istituto Cervi, officina di ricerca e di ripensamenti, parte una riflessione che non vuole certo demolire una data significativa ma pone alcuni interrogativi su una cerimonia appannata dalla ritualità. «C´è una stanchezza della memoria», dice David Bidussa, storico sociale delle idee e membro del consiglio scientifico del Cervi nonché direttore della Biblioteca della Fondazione Feltrinelli. «E come altre scadenze del calendario pubblico, il 27 gennaio si mostra in affanno».
Perché?
«Aver memoria non significa soltanto ascoltare una testimonianza o vedere immagini mostruose. Significa rielaborare tutto questo dentro di sé, assumendolo nei propri codici culturali. La consapevolezza del passato dovrebbe agire nel presente».
E invece?
«La memoria rischia di diventare come l´enciclopedia: la consulti solo per sapere cos´è successo e poi la metti via, come fosse un lemma o un tomo ingombrante. Esercizio mnemonico più che acquisizione della coscienza. Una memoria dal fiato corto».
Questo è diventato il 27 gennaio?
«Non voglio liquidare la ricorrenza con un bilancio negativo: ha il merito di aver esteso enormemente la sensibilità sulla Shoah. Ma è rimasta una ricorrenza estranea alla nostra storia nazionale. Il 27 gennaio è la data dell´apertura dei cancelli di Auschwitz: una data del calendario civile europeo trasferita nel calendario nazionale. Abbiamo rinunciato ad affiancarle un´altra ricorrenza che riguardasse più direttamente la storia italiana. In Francia, ad esempio, esiste la data del 16 luglio, che ricorda la razzia di 13 mila ebrei rinchiusi nel Velo d´Hiver a Parigi. Una data riferita a qualcosa che è accaduto altrove rischia di diventare una “non data”. È come se avessimo voluto fare di questa ricorrenza un´occasione di riflessione metafisica, togliendole storia».
Un modo per assolverci da qualsiasi responsabilità?
«Non basta osservare l´orrore, per rifiutarlo. Bisogna capire come funzionava la sua potente macchina, e com´è stata raccontata più tardi dai suoi artefici. In Uomini comuni Christopher Browning ci introduce alla violenza introiettata da persone normali (non criminali delle SS) le quali hanno spiegato le loro efferatezze con l´argomento che allora apparivano necessarie e giuste, addirittura “consolanti per la coscienza”. Quegli uomini non erano nati violenti: lo sono diventati. Le loro testimonianze ci dicono molto di più di quel che ci raccontano i crimini commessi».
Sta dicendo che è prevalsa finora una memoria rassicurante.
«Temo che il meccanismo attivato dal 27 gennaio consista nell´osservare con raccapriccio ciò che allora accade, rallegrandoci in fondo che oggi quella tragedia non stia accadendo a noi. Invece io propongo un´altra prospettiva: mentre qualcuno attraversava l´orrore, c´erano milioni di persone che voltavano altrove lo sguardo. Ora, in forma certamente meno estrema e meno drammatica, alcune scene si vanno ripetendo nella nostra civiltà. Non ci accorgiamo della crudeltà che accompagna le espulsioni o le vite violente nelle periferie: c´è un lato brutale nella nostra quotidianità che abbiamo deciso di espellere dallo sguardo».
La nostra indifferenza paragonata all´indifferenza di 70 anni fa?
«La macchina della persecuzione era caratterizzata da una ripetitività travestita da segni rassicuranti: “prepara la valigia” si diceva all´ebreo da deportare, un invito banale che dissimulava la tragedia. Vorrei che oggi riflettessimo di più sull´ambiguità di quei gesti che siamo abituati a pensare come rassicuranti».
L´”abuso della memoria”, per usare una formula di Todorov, porta molti studiosi a invocare più storia e meno memoria.
«Io non porrei limiti alla memoria, ma nel maneggiare i materiali occorrono maggior tenacia e minor fretta. La storia filtrata dai media tende sempre più alla banalizzazione. Per leggere un documento servono molte cose: interpretazione, educazione allo sguardo, conoscenza del suo uso nel tempo. Credere che un documento parli da solo è la via più diretta per capire poco. La foto del bambino di Varsavia con le mani alzate è esemplare: Fréderic Rousseau ci ha spiegato che una foto da noi guardata dalla parte della vittima nasce come documento del buon lavoro dei carnefici. Un serio esercizio storico a cui in molti hanno rinunciato».
È critico verso i suoi colleghi?
«Gli storici hanno un´enorme responsabilità. Non siamo stati in grado di costruire una storia narrata, anche problematica, che fosse popolare. Inoltre la nostra è una storiografia molto litigiosa, e anche presuntuosa, che è andata perdendo in questi anni la sfida con le altre discipline. In molti hanno ceduto al modello televisivo, nell´illusione di disintegrare precedenti miti: il risultato è che ne hanno costruito di nuovi, e non sono più in grado di dominarli. Prevale una narrazione mediatica che ormai appartiene alla postmemoria, ossia a una rivisitazione fantasiosa della storia. È una sostanziale abdicazione al mestiere».
A dispetto della sacralità della memoria, lei sostiene, oggi prevale il consumo.
«Si mangiano velocemente le storie. E si consumano i materiali. Occorrerebbe anche uscire da quello che Giovanni De Luna ha definito sul Venerdì un calendario vittimario: non siamo più in grado di ragionare se non in veste di vittime. I testimoni devono continuare a parlare, ma noi abbiamo il dovere di rielaborare le loro voci anche per misurarci con il presente. Perché da quella storia non siamo fuori, e con il suo codice di violenza occorre ancora fare i conti».
La Repubblica 26.01.11