Solo scienziati e università del Nord nell´agenzia che valuta gli atenei. Le discipline umanistiche? Non esistono per il governo italiano. Non esiste la storia. Non esiste l´italianistica. Non esiste lo studio dell´arte e dell´archeologia. Non esistono la filosofia né l´estetica. Non esiste, in sostanza, quella tradizione di saperi che conserva il patrimonio e la memoria di un paese. Dal consiglio direttivo dell´Anvur (l´agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), nominato dal Consiglio dei ministri, sono stati esclusi gli studiosi delle scienze umanistiche. Ed è stato escluso l´intero Mezzogiorno, nel senso che non vi figura nessun rappresentante delle facoltà collocate a Sud di Roma.
All´agenzia spetta un compito fondamentale: giudicare la qualità degli atenei e degli enti di ricerca. Dalle valutazioni discendono i finanziamenti che premiano i risultati migliori. Per questa ragione l´esclusione dell´area umanistica solleva allarme e preoccupazione nella comunità intellettuale. E diventa anche un caso politico. «Ora che finalmente l´Agenzia viene attivata», ha dichiarato Luigi Zanda, vicepresidente del gruppo del Partito Democratico a Palazzo Madama, «il governo ricade nella cattiva abitudine di dividere la cultura tra discipline buone e discipline cattive, e le Università tra quelle del Nord e quelle del Sud». Uno squilibrio che non ha turbato i sonni di Giulio Tremonti, secondo alcuni preoccupato solo di analizzare il colore politico dei consiglieri: ma la sua “furibonda” telefonata alla Gelmini è stata smentita dal Miur. Mentre Paola Binetti mugugna per la nomina dell´illustre genetista, del quale non gradisce il genere di ricerche. «Sono uno scienziato, non un agitatore politico», è la replica di Giuseppe Novelli.
Centrale rimane la questione dell´esclusione delle scienze umane e del Mezzogiorno. «Sbalordito» e «deluso» si dice Salvatore Settis, che fa parte del comitato che aveva proposto una rosa di quindici candidature al ministro Gelmini, la quale poi ha selezionato sette nomi rappresentativi delle varie aree disciplinari, ma non delle scienze umane. «Non riesco a comprendere le ragioni dell´esclusione», interviene lo studioso. «Abbiamo lavorato con serietà e rigore, mettendo in gioco la nostra esperienza internazionale e le nostre competenze. E ora vediamo che sono state tagliate fuori le scienze umane e l´intero Mezzogiorno». Nella rosa dei sette nomi approvati, compaiono due economisti (Fiorella Kostoris e Andrea Bonaccorsi), una sociologa (Luisa Ribolzi), un genetista (Novelli), un veterinario (Massimo Castagnaro), un fisico (Stefano Fantoni) e un ingegnere (Sergio Benedetto): in sostanza le scienze sociali (in larga rappresentanza), le scienze biomediche e le scienze fisiche. «È evidente la sproporzione», continua Settis, che nel suo comitato era l´unico rappresentante delle discipline escluse. In una lettera alla Gelmini ha chiesto che al più presto sia posto rimedio allo squilibrio.
Identiche perplessità provengono da Enrico Decleva, storico dell´età contemporanea e presidente della Conferenza dei Rettori. «Colpisce l´assenza delle discipline umanistiche. E colpisce anche la mancanza delle università del Mezzogiorno. Ma confido nel fatto che il governo provveda ad ampliare il consiglio direttivo».
In fermento è la comunità degli studiosi che operano nelle Facoltà di Lettere e Filosofia, le più penalizzare dalla scelta del ministro. «Il rischio è che alle nostre discipline vengano trasferiti parametri di valutazione che hanno senso solo in campo scientifico», interviene Amedeo Quondam, presidente degli italianisti. In un documento firmato dalle diverse associazioni – oltre gli italianisti, gli slavisti, i latinisti, gli storici dell´arte, i filosofi, gli studiosi di estetica, gli anglisti, gli storici dell´età medievale, moderna e contemporanea, la conferenza dei presidi di Lettere e Filosofia – si chiede che nel consiglio direttivo dell´Anvur «ci sia una rappresentanza qualificata dell´area umanistica» tenendo conto del fatto «che questo ampio settore ha da tempo elaborato una condivisa cultura della valutazione, in grado di tenere conto con equilibrio di quanto lo rende omogeneo a tutti gli altri settori e di quanto invece lo distingue». Valutarlo secondo criteri sbagliati, in sostanza, porterebbe danno alla memoria e al patrimonio di un paese già in forte crisi di identità
La Repubblica 25.01.11