Viviamo schiacciati in un disperato presente e a volte ci assale un senso di vuoto che mette in forse anche la nostra incerta identità italiana. Se è consentito per un attimo evadere dalla stretta e pruriginosa attualità, senza che questo appaia una forma di disimpegno morale, vorremmo cogliere l’occasione della prossima giornata della memoria, 27 gennaio, il ricordo dell’immane tragedia della Shoah, per parlare un po’ di noi stessi e discutere di quello che stiamo diventando: un Paese smarrito che fatica a ritrovare radici comuni e si appresta a celebrare distrattamente i 150 anni di un’Unità che molti mostrano di disprezzare. Noto una certa stanchezza, nell’approssimarsi di una ricorrenza (il 27 gennaio del ’ 45 venne liberato il campo di Auschwitz), peraltro istituita con una legge dello Stato soltanto undici anni fa. Avverto un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi. Anna Foa, sul Sole 24 Ore di ieri, giustamente ci metteva in guardia dall’ipertrofia della memoria, che rischia di far perdere l’indispensabile nesso fra funzione conoscitiva (sapere perché non accada più) e funzione etica (cittadini consapevoli dei valori universali e, dunque, migliori). Non mancano, e sono numerose, le eccezioni positive, soprattutto nel mondo della scuola, ma ciò non è sufficiente a dissipare la sensazione di un progressivo distacco dagli avvenimenti, la cui comprensione profonda è indispensabile alla nostra formazione culturale e civile. Avvenimenti che tendono ad allontanarsi, e non solo per effetto del tempo che passa, dal nostro orizzonte identitario, come accade per il Risorgimento o per la Resistenza, di cui la nostra Costituzione è figlia. I negazionisti o i mistificatori abbondano in Rete. Ma dobbiamo temere anche gli indifferenti, e non sono pochi, davanti ai quali le testimonianze dell’esistenza di un male assoluto scorrono come le immagini di una qualsiasi fiction: sembrano non penetrare le coscienze e non muovere alcuna forma di commozione. Svaniscono un attimo dopo essere state viste, nel trionfo di una memoria digitale tanto abbondante quanto fredda. Un bel libro di Frediano Sessi, intervistato sabato da Giovanni Tesio sulla Stampa, e di Carlo Saletti (Visitare Auschwitz, Marsilio) ci insegna a capire come l’universo concentrazionario e di morte fosse il risultato di una mente umana del tutto normale, purtroppo, e non folle o eccezionalmente malata. E che il valore della memoria si affievolisce presto nella banalità e nell’irrilevanza se non c’è insegnamento e riflessione sul presente. «Un’oretta e mezzo di genocidi, guerra, scheletri, morti ammazzati, follia omicida e se non c’è traffico alle undici saremo a Firenze» , scriveva provocatoriamente Andrea Bajani, a proposito di un certo frettoloso turismo della memoria.
Probabilmente abbiamo commesso molti errori di comunicazione, non lo escludo. Vi è forse una certa sovrabbondanza di materiali, non didatticamente ordinati (l’ipertrofia di cui parla la Foa), ma sarebbe assai grave se la società italiana perdesse progressivamente la consapevolezza della propria storia e il ricordo di tanti sacrifici, di tante ingiustizie, del disegno lucido, concepito nella patria della filosofia, del diritto moderno e della musica, di cancellazione di un intero popolo dalla terra. Questo è il senso dell’unicità della Shoah. Nell’indifferenza etica crescono i pregiudizi, nell’ignoranza si cementano gli odi e i sospetti; nella perdita dei valori della cittadinanza, scritti mirabilmente nella nostra Costituzione, fermentano i germi di nuove violenze; le comunità regrediscono a forme tribali. Segni di questa involuzione li troviamo in molti Paesi europei, anzi a dire la verità il nostro appare meno toccato da forme di estremismo quando non di razzismo. Nell’Est liberato dall’oppressione sovietica e accolto, fin troppo generosamente, dall’Unione europea, emergono fenomeni assai più preoccupanti. Ma sbaglieremmo se ci considerassimo totalmente immuni, se coltivassimo, come è scritto nella bella prefazione di Michele Sarfatti al libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia, Einaudi) l’idea, sbagliata, che tutto sommato l’Italia, dopo le leggi razziali del 1938, abbia recitato un ruolo parziale, secondario o addirittura controvoglia, nella grande tragedia della Shoah. «La verità— si legge— è che l’Italia e gli italiani intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei e la portarono avanti con sistematicità, determinazione ed efficacia. E se il tributo di vite umane tra la fine del ’ 43 e la primavera del ’ 45 fa parte della storia più generale della Shoah, la persecuzione subita dagli ebrei tra il ’ 38 e il ’ 43… resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere» . Ma ugualmente ancora poco conosciuto è il grande e generoso contributo di solidarietà agli ebrei che venne da tanti semplici cittadini i quali rischiarono la loro vita per dare assistenza e rifugio ai perseguitati. Uno straordinario capitolo di storia italiana. «Abbiamo sempre avuto dove dormire la notte e la fame brutta non abbiamo mai sofferta» , si legge in una lettera scritta da Cesare Zarfati poco prima di essere deportato. Migliaia di ebrei salvati, da famiglie umili, cittadini anche poveri e poco istruiti, ma consapevoli dei valori universali, che oggi stentiamo a difendere, e per nulla intimoriti da fascisti e nazisti. Quanti oggi avrebbero quel coraggio? Una resistenza civile diffusa, cui diede un contributo prezioso la Chiesa, di cui essere fieri. La memoria è giustizia ed esercizio di etica civile. Quotidiano.
Il Corriere della Sera 24.01.11