I 150 anni dall’unità d’Italia offrono l’invito a ripensare e riaggiustare anche in senso federalista, secondo le esigenze dei tempi e le accertate manchevolezze, il patto fondativo che ci ha fatti nazione. Ma devono anche liberarci dalla faziosità e dall’incultura che mettono in forse l’unità del paese e inducono al disprezzo del vessillo tricolore. Al centro del discorso, si sa, c’è il Risorgimento, la fondatezza e la dignità delle sue ragioni.
Ed è soprattutto alle estremità della penisola, tra il Nord e il Sud, che si confrontano i più esagitati contestatori del moto unitario. Con una rimozione pudibonda di elementari dati di fatto. Dalla Padania in odore di secessionismo si trascura che a impinguare i Mille di Garibaldi furono soprattutto i patrioti lombardi, seguiti da liguri e veneti. Quelli che riscoprono all’opposto la progressiva mitezza del regime borbonico dimenticano che le menti più aperte e avanzate del Meridione si pronunciarono allora per l’unità. Magari obtorto collo, avendo dovuto accettare l’opzione monarchica e il pennacchio del re piemontese.
Dovremmo assistere a un comico, antistorico, mea culpa? Soltanto la rozza semplificazione di un «Risorgimento senza eroi» potrebbe inoltre svilire gli entusiasmi e i sacrifici di chi si spese nobilmente nelle cospirazioni e nelle battaglie risorgimentali, fino a ispirare i più consapevoli martiri della Resistenza.
Le reciproche efferatezze nella guerra contro il brigantaggio, le inadempienze dello Stato unitario, i ritardi nell’estensione dei diritti civili alle masse popolari, la criminalità organizzata che si mostra irriducibile fino ai nostri giorni, non vanificano gli acquisti di una modernità che non può prescindere da uno Stato unitario. È rimasta piuttosto, in modo più acuto di quanto sia avvenuto altrove, la stentata coscienza di una solidarietà nazionale. Ma chi si trova provvisto di sufficiente senno dovrebbe essere quanto meno orgoglioso di condividere con tutti gli italiani le espressioni di un’alta civiltà, a partire da una lingua straordinaria che purtroppo sentiamo continuamente bistrattare.
Non c’è rivendicazione, ragionevole o stolida, che possa lacerare impunemente questo ammirevole tessuto culturale. Personalmente, mi sento molto legato alla mia terra piemontese, coltivo nordici sensi, ma non saprei rinunciare all’abbraccio ideale con un Verga o un Pirandello, dimenticare l’amicizia con uno Sciascia o un Bufalino. All’ombra, massì, del vivido tricolore
La Stampa 23.01.11