«È come un campionato di serie C: tutto è piccolo, piccole sfide, piccoli candidati, è diventata piccola la politica». Fausto Anderlini, 59 anni, sociologo, bolognese, responsabile del Medec (centro demoscopico metropolitano), ha passato la vita nel Pci-Pds-Ds-Pd e quando parla delle prossime primarie, quelle di domenica, lascia da parte le categorie del passato. «Siamo come una squadra gloriosa ma decaduta, forse è anche un fatto fisiologico che dopo un lungo ciclo di eccellenza arrivi il declino». Il passato di cui parla Anderlini è quello di una città guidata da sindaci entrati nella leggenda come Giuseppe Dozza, per 21 anni alla guida delle “due torri” o Renzo Imbeni che ne gestisce 10.
Non esiste ricambio, la sinistra regna per più di 50 anni creando il mito di Bologna come fortino ideologico e gioiello amministrativo. «Ma proprio grazie a quell’assenza di alternanza è stato possibile vedere in prospettiva, programmare sul lungo termine sviluppando un circuito sano tra politica, mondo universitario e imprese. Il partito, per quanto ideologizzato, aprì un porto franco con gli intellettuali, a cominciare dal Mulino che nasce nel ’52, ma cercò il dialogo anche con la Chiesa. Nel frattempo assecondava lo sviluppo economico»: Patrizio Bianchi smette le sue vesti di assessore alla Scuola, Formazione e Lavoro della regione Emilia per tornare ai panni dell’intellettuale ed economista. La sua chiave di lettura della “fragilità” di oggi è quella di una politica che s’ammala spiazzata dal bipolarismo e si chiude in se stessa prosciugando quei canali aperti con la società.
È così che Bologna entra nel tunnel. È il ’99, il partito non sa trovare candidati, la città gli volta le spalle ed elegge Giorgio Guazzaloca, primo sindaco di centro-destra, il primo “barbaro” che entra nel tempio. Uno shock. Nel 2004 il partito cerca la riscossa pescando il candidato dal mercato nazionale: è Sergio Cofferati, ma la scintilla con la città non scocca e peggio accade con Flavio Delbono che governa meno di un anno travolto dai suoi scandali personali. Nel frattempo si passa dai Ds al Pd ed eccoci a queste primarie di domenica.
Primarie minori, da serie C, appunto, eppure la suspense c’è. Perché il Pd è sotto il tiro incrociato di vendoliani-prodiani che oppongono al candidato ufficiale del Pd, Virginio Merola, la loro candidata, Amelia Frascaroli. Si consuma lo strappo tra il Professore e il Pd, anche se non in modo formale: Prodi non sostiene alcun candidato ma sua moglie e la sua più fidata collaboratrice, la deputata Sandra Zampa, sostengono la Frascaroli, ex dirigente Caritas, otto figli (cinque in affido), animatrice di un tea party alla bolognese per gli incontri politici fatti nel tinello di casa sua. Con poco affetto, alcuni media l’hanno ribattezzata la candidata che “odora di cavolo” ma dall’altra parte Merola appare come il candidato Pd di risulta. È l’unico rimasto dopo il ritiro di Maurizio Cevenini, un mister preferenze locale che, per problemi di salute, ha lasciato campo libero al secondo tentativo di Merola ai gazebo (fu già bocciato contro Delbono). Tra di loro Benedetto Zacchiroli che non sembra avere chance nonostante il suo gesto di lealtà: un coming out sulla sua omosessualità circa una settimana fa.
Questa è la gara di domenica. Appassionante solo per chi tifa una nuova débâcle del Pd a vantaggio dell’asse prodiani-Vendola. E appassionante sarà, di certo, quando si voterà per il sindaco visto che il terzo polo e Giorgio Guazzaloca stanno organizzando un nuovo assalto alla città con la candidatura civica dell’imprenditore Stefano Aldrovandi, già amministratore della multiutility Hera e della Fondazione Del Monte. Riscossa probabile in una città che ha visto innanzitutto modificare la sua composizione socio-economica molto velocemente. E questa è un’altra chiave per interpretare la fragilità della sinistra. Questa lettura racconta di nuovo la fatica con cui il Pd, perfino a Bologna, dialoga con una realtà cambiata. «La città del Pci era di estrazione contadina, poi operaia e dopo dei colletti bianchi. Oggi è il luogo del terziario avanzato», racconta Anderlini che in una sua ricerca disegna la mappa bolognese: 6,9% di imprenditori e professionisti, 8,3% di lavoro autonomo, il 12,3% è quadro, dirigente o insegnante, il 37,7% di impiegati mentre gli operai sono al 20,5 per cento. Una vivacità che è anche frammentazione a cui il partito non sta dietro.
E, infatti, nonostante si senta orfana della politica, Bologna va per la sua strada e continua a gareggiare in serie A. La classifica del benessere del Sole 24 Ore la dà all’ottavo posto, è nella hit parade dei servizi sociali, al quarto posto per depositi bancari, prima (in proporzione agli abitanti) per numero di brevetti, in testa nel tenore di vita dopo le supernordiche Bolzano, Trieste, Milano.
Insomma, la città marcia surclassando la politica. Lo spiega Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia nazionale del terzo settore e ordinario di economia a Bologna, che conosce a fondo la città. «Da quando il partito ha abdicato al suo pensiero forte, la politica è diventata solo gestione di interessi per di più sul corto termine: ma allora sono più bravi gli altri! E soprattutto si è interrotto lo scambio intellettuale tra partito e società. Bologna è piena di materia grigia, ci sono circa 90mila studenti e 3mila docenti, ma i canali di comunicazione sono chiusi, la politica non fa più networking tra università, innovazione, imprese. E non accade più perché, a un certo punto, la politica ha preteso di guidare tutti».
Ecco un’altra chiave di lettura: il partito che passa da una pretesa egemonia al ripiegamento su se stesso condannandosi all’asfissia. E infatti da quasi 10 anni non riesce a esprimere candidati e classe dirigente. E a rimpolpare la militanza. «Oggi la base è fatta di anziani: 70-80enni, molti iscritti allo Spi, il sindacato Cgil dei pensionati. Il resto è diasporico», racconta Anderlini. Ed è questa diaspora che andrebbe ricomposta. Non nelle forme classiche di ricompattamento delle basi sociali ma nell’operazione che Zamagni chiama «networking», che Bianchi evoca con i «porti franchi» e Andrea Lipparini, ordinario a Bologna di gestione della tecnologia, chiama «un ponte tra politica, imprese e innovazione prodotta dall’università. Una città che è prima per brevetti in rapporto alla sua popolazione è una città che ha energie ma vanno messe in circolo e deve tornare a farlo la politica».
Il rischio è che il declino della politica metta a rischio un capitale accumulato nel solco della tradizione. «Bologna cede terreno non nei beni privati ma nei commons. Ma anche la mancanza delle due banche locali – ora acquisite da grandi gruppi – genera qualche riflessione su quale sarà la politica degli impieghi e quale impatto avrà sullo sviluppo locale», spiega Zamagni. Il rischio Anderlini lo vede chiaramente: «Qui c’è l’apparato di welfare più corposo d’Italia: il 40% di bambini va agli asili nido. L’impianto reggerà?». Alla fine, è questo il patrimonio che Bologna rischia nel suo essere orfana della politica.
Il Sole 24 Ore 22.01.11