La base della crisi. Il silenzio delle vittime. Da quando è iniziata la crisi ha sempre prevalso il silenzio delle vittime, questa volta le vittime non sono state zitte. «Nonostante la sconfitta oggettiva di chi si è opposto all´accordo su Mirafiori, quel 46% di voti contrari è un importante segnale della resistenza del mondo operaio italiano». Alain Touraine giudica i risultati del referendum alla Fiat di Torino, che «nella situazione di decomposizione politica del paese mostrano la vitalità dei lavoratori e la loro capacità di mobilitarsi. «Il celebre sociologo francese, autore di molti saggi tra cui “La globalità e la fine del sociale” e “Après la crise” (appena uscito in Francia da Seuil), lo sottolinea, dal suo ufficio alla prestigiosa École des Hautes Études en Sciences Sociales: «Il no di quasi la metà dei lavoratori sarà anche un appello disperato, come sostiene qualcuno, ma mostra che è possibile provare a difendere gli interessi dei lavoratori, anche sullo sfondo di un contesto estremamente sfavorevole e con il rischio reale di perdere il posto di lavoro. In Francia, in casi analoghi gli operai hanno accettato senza fiatare le condizioni imposte dalle imprese o hanno assistito impotenti alle delocalizzazioni. Da quando è iniziata la crisi, nel 2008, ha sempre prevalso quello che ho chiamato “il silenzio delle vittime”, spesso accompagnato dalla logica del si salvi chi può. Questa volta le vittime hanno deciso di non rimanere silenziose. Per me è una novità importante. «
Perché dice che il contesto era sfavorevole?
«Stiamo vivendo la fine di un lungo periodo che ha segnato il progressivo trionfo del neoliberalismo, con il conseguente indebolimento di quell´alleanza tra capitalismo, democrazia e stato sociale che aveva favorito lo sviluppo economico del dopoguerra. Oggi il ciclo dell´ultraliberalismo sta probabilmente finendo, ma per il momento ne viviamo ancora le conseguenze più negative».
Ad esempio?
«L´economia occidentale è dominata dal grande capitalismo finanziario e industriale, mentre le forze sociali sono dappertutto sulla difensiva. La crisi economica generata dalla finanza ha favorito il rafforzamento delle forze del capitale. Dappertutto aumentano i redditi da capitale mentre diminuiscono i redditi da lavoro, per non parlare dello smantellamento del welfare. Il paradosso della crisi innescata dalla finanza è che si chiede ai lavoratori di pagarne il conto. Ma non sono certo gli eccessi di protezione dello Statuto dei lavoratori che hanno prodotto la crisi economica in Italia o in Francia».
Chi difende l´accordo su Mirafiori dice però che bisogna fare i conti con la globalizzazione e il costo del lavoro dei paesi emergenti. Lei che ne pensa?
«Non credo a questo ragionamento. E´ vero che viviamo in un´economia globalizzata, dove i singoli paesi hanno una capacità d´intervento molto ridotta. Ed è chiaro che è molto difficile pensare contemporaneamente economia nazionale ed economia globale. Detto ciò però i paesi occidentali sono ancora i più grandi paesi industrializzati al mondo, con il più alto livello di qualificazione e di ricerca. Più che cercare di drogare la domanda interna o inseguire il costo del lavoro dei paesi emergenti, devono puntare sulla qualità e l´innovazione, perché solo così si conquistano nuovi mercati. Come sta facendo la Germania».
Molte imprese però delocalizzano la produzione…
«Non bisogna confondere la delocalizzazione delle mansioni poco qualificate con la delocalizzazione dei centri studi e dei tecnici specializzati. Sarebbe una catastrofe per la Fiat e per l´Italia, se il cuore dell´azienda dovesse lasciare l´Italia. Marchionne sfrutta con un certo cinismo la situazione di forza che gli è consentita dalla crisi, ma non credo che i risultati della Fiat dipendano dalla soppressione della pause durante i turni. Se oggi può proporre lavoro contro maggiore flessibilità è anche perché il mondo operaio è stato progressivamente marginalizzato nella società. Ciò è dipeso da ragioni economiche, ma anche dall´indebolimento del mondo operaio accelerato dalla crisi del mondo comunista, cui quel mondo era inevitabilmente legato. «
Cosa possono fare i sindacati in questo contesto?
«Occorre ritornare alla grande tradizione della socialdemocrazia svedese, da sempre favorevole all´apertura dell´economia ai mercati mondiali, ma difendendo al contempo la ridistribuzione della ricchezza e la protezione sociale. Non bisogna scegliere tra difesa dell´economia, e quindi delle imprese, e difesa dei lavoratori. Vanno difesi insieme contro l´economia speculativa che sottrae capitali alla produzione. Quando si parla di deindustrializzazione non bisogna pensar solo alla chiusura delle fabbriche e alle delocalizzazioni, ma anche a tutto quel denaro che, investito in rendite finanziarie e in operazioni speculative, è sottratto al ciclo produttivo. Anche questa è una conseguenza del trionfo ultraliberale che occorre combattere fortemente».
La Repubblica 21.01.11