Nel campo lessicale, e quindi anche nel più vasto territorio della lingua, è in atto una pericolosa svolta: dall’opacità di quello che i latini chiamavano sermo quotidianus (il linguaggio della vita quotidiana dello strato medio-basso della borghesia, superficialmente o per nulla acculturata), e dalla forte espressività del sermo vulgaris (sfociante nel dialetto e nel gergo dell’antica plebe o del moderno sottoproletariato), alla attuale omologante e bastarda lingua dei media (soprattutto quella della TV, apparentemente corretta, in realtà infarcita di vocaboli stranieri connessi alla tecnologia elettronica e a “modi di dire” – veri tòpoi linguistici – serializzati a tutti i livelli della società, e spesso devianti dal loro significato originario. Sezione importante di questa deriva linguistica, è quella del linguaggio, politico, scolastico e accademico, beffardamente definito “politichese”. È così che in anni recenti – e soprattutto in questi ultimi, coincidenti con la gestione Gelmini del Ministero dell’Istruzione –, è entrato nell’uso inflazionato il vocabolo “meritocrazia”, il quale correttamente inteso significherebbe “dominio del merito” e che artatamente viene inteso come “merito che deve essere premiato”.
Poiché si sa che le parole hanno il potere di suscitare il pragma, cioè oggetti o iniziative concrete, la parola meritocrazia, pronunciata nel campo dell’istruzione, si trasforma in cardine d’una “viziosa” iniziativa didattica e finanziaria: quella di individuare le Università efficienti nel campo della didattica e della ricerca al fine di farne oggetto di onori e soprattutto di elargizioni di denaro, e, in contrasto con esse, quelle non efficienti, e quindi surrettiziamente disprezzate. Tutto ciò è contrario al “buon governo”, e decisamente simile ad uno spietato “malgoverno”. Applichiamo questo criterio selettivo alla classe d’un liceo affidata a un professore che esprimesse così il proprio metodo d’insegnamento (io ne ho conosciuto uno di questa specie): “Mi occupo solo degli alunni bravi, quelli che mi seguono e imparano le lezioni; quelli meno bravi, demotivati, svogliati, distratti, indisciplinati e persino “bulli”, li abbandono alla loro sorte”. Credo che costui debba essere considerato un pessimo professore, che tradisce oltretutto la sua doppia funzione di docente e di educatore. L’“alunno bravo” continuerà ad esserlo anche se il professore si dedicherà con maggiore impegno agli alunni negligenti (che forse lo sono anche per sua colpa), valutando il loro carattere, le loro situazioni familiari, e i loro reali interessi. Gli alunni di quella certa classe che hanno più bisogno di aiuto non sono i migliori, ma i “peggiori”, cioè quelli che forse richiederebbero maggiore considerazione, amicizia, solidarietà, e cultura adatta alla loro psicologia. Questo non significherebbe buonismo, ma andare al cuore del problema, evitando le sciocche e dannose illusioni che l’uso della discriminazione e la cieca severità (e delle bocciature) possa essere il farmaco che guarirà i mali della scuola.
Tornando ai “valutatori”, ai quali una serie di scelte burocratiche, stabilite per legge, conferisce il potere di dividere le università in “virtuose” e “viziose”, sarebbe opportuno raccomandare loro preventivamente lo studio attento delle caratteristiche ambientali, sociali, morali, psicologiche, sia delle Istituzioni accademiche ad essi affidate, e sia dei loro docenti e dei discenti, anzitutto. E il sostegno economico non deve essere un premio ai “migliori”, ma una necessità per i “peggiori”, studiando le ragioni di quel loro essere tali e stando ad essi vicini, controllando umanamente l’uso che essi fanno dell’aiuto dello Stato.
E smettiamo di usare a sproposito la parola “meritocrazia”, ricordando che ogni governo è da sempre stato formato tenendo conto non dei meriti e delle competenze dei ministri: i governi sono sempre stati il frutto di scontri e patteggiamenti segreti tra gruppi e fazioni all’interno di ogni partito.
Liberazione 20.01.11