Difficile, anzi impossibile, che la visita di Stato di Hu Jintao negli Usa fallisca. Da Pechino e da Washington è descritta come la visita più importante da trenta anni. Da quando Deng Xiaoping, nel suo pragmatismo, decise di chiedere l’aiuto del capitalismo americano per salvare il comunismo cinese. Ma difficile anche che il summit Hu-Obama riesca a cambiare le cose: la superpotenza di ieri e di oggi, l’America, e il suo sfidante di domani, la Cina, sono condannate a un rapporto ambiguo. Perché hanno interessi e visioni troppo diversi – su di sé e sul proprio ruolo nel mondo – per riuscire a costruire un vero condominio; ma hanno anche legami economici e finanziari troppo importanti per potersi permettere una rottura. Per questo il G-2, più che la guida del XXI secolo, sembra soprattutto un compromesso: parziale e temporaneo.
La storia delle relazioni internazionali non è affatto tranquillizzante su quello che potrebbe accadere. Tutte le volte che una nuova potenza ha sfidato l’ordine costituito, sono nati tensioni e conflitti. Il problema degli Stati Uniti di oggi, di fronte all’ascesa di una Cina che ha in tasca il 25% di tutte le riserve finanziarie al mondo e larga parte del debito estero americano, ricorda agli studiosi anglosassoni il declino dell’impero britannico di fronte all’affermazione dell’America e del dollaro. La crisi finanziaria del 2008 ha rafforzato la sensazione che un ciclo si sia compiuto: l’America è l’Impero democratico del passato, la Cina è l’Impero di Mezzo, neo-confuciano, che ritrova la grandezza perduta e conquista il futuro.
Può darsi: ma è una previsione superficiale o almeno semplicistica perché trascura una serie di incognite decisive, anzitutto sulla tenuta del modello cinese. La Cina deve ancora dimostrare, con un Pil pro capite attorno ai 4000 dollari, che riuscirà a diventare ricca prima di diventare vecchia (la demografia va in questo senso); e non è chiaro come riuscirà a tenere insieme i delicati tasselli del proprio miracolo economico. L’inflazione, che oggi si riaffaccia, è una spia ricorrente di possibili tensioni sociali; rese più delicate dalla successione prevista, nel 2012, alla «quinta generazione» di leaders. Hu Jintao è consapevole di questa potenziale fragilità interna; per questo, seduto a cena alla Casa Bianca, dirà a Obama che la Cina ha comunque bisogno di un rapporto costruttivo con l’America. E delle sue tecnologie.
Il Presidente americano, che guarda invece alla rielezione nel 2012, ha nella Cina un punto debole. Ha gestito male la fase iniziale dei rapporti con Pechino (la famosa mano tesa del 2009); e Cina significa per gli americani – all’inizio di una ripresa senza posti di lavoro – competizione sleale e delocalizzazione. Obama tenterà di fare capire ai suoi elettori che un rapporto cooperativo con Pechino è il male minore possibile; ma dovrà anche ottenere qualcosa, di vero o di semi-vero: la parziale rivalutazione dello yuan, già in corso; progressi sulla tutela della proprietà intellettuale; accordi sulle energie rinnovabili.
Entrambi, Obama e Hu, sanno che il 2010 è stato un anno fallimentare per il «rapporto bilaterale più importante al mondo» – per usare l’espressione di Hillary Clinton che innervosisce gli europei. Dovranno ricominciare da capo dal punto meno facile: la costruzione di un minimo di fiducia reciproca.
Sulle questioni commerciali e valutarie la tensione di partenza è forte; ma lo sono anche i vincoli. L’America indebitata non può alienarsi il suo principale creditore; la Cina non può rischiare di scatenare tensioni protezionistiche nel nuovo Congresso americano. Per ora una Cina che investe miliardi di dollari a sostegno dell’euro e prevede un futuro in cui lo yuan diventerà una moneta internazionale di riserva non può che difendere il dollaro. Il predominio internazionale del dollaro, ha dichiarato Hu Jintao al Wall Street Journal, è un prodotto del passato; ma il futuro non è ancora qui. Solo quando avrà mercati finanziari aperti e molto più liquidi – in altri termini: quando avrà modificato l’attuale modello di capitalismo di Stato – la Cina potrà pensare a una sua moneta globale. E fino a quando l’economia cinese dipenderà dal dollaro, Obama lo sa, anche la nuova assertività dei militari resterà sotto controllo.
La sicurezza asiatica, come hanno dimostrato le frizioni del 2010, ha tutti gli ingredienti per forti tensioni. Washington sta rilanciando le vecchie alleanze regionali, cosa che la Cina legge come una nuova strategia di contenimento ai suoi danni. Pechino rivendica interessi nazionali nel Mar Cinese meridionale, e l’America si chiede quanto bilanci militari poco trasparenti servano a preparare la proiezione della forza cinese, chiudendo la fase del «basso profilo» in politica estera. Ma anche qui: per ora Washington e Pechino preferiscono cooperare al minimo (la crisi coreana ne è un esempio, così come le sanzioni all’Iran) piuttosto che entrare in una prova di forza. Poi si vedrà.
Dopo le ingenue aspettative del 2009 e le tensioni eccessive del 2010, il vertice di Washington segnerà probabilmente un giusto riequilibrio. Il condominio che l’Europa teme non nascerà. La Cina non ha ancora veramente deciso come trasferire la propria ascesa economica in responsabilità internazionale; l’America non sa ancora come adattarsi a un sistema globale che non riesce più a dominare. L’Europa sbaglierebbe, tuttavia, se si limitasse a tirare un sospiro di sollievo. Il sistema internazionale cambierà comunque: e se un accordo fra i Grandi non ci sarà, ci sarà uno scontro. Se non riuscirà a creare le premesse per fare parte di chi decide, invece di chi subisce, il Vecchio Continente verrà sballottato fra la vecchia dipendenza dalla sicurezza americana e i nuovi soldi che arrivano dalla Cina. Uno scenario poco piacevole, da qualunque parte lo si guardi.
La Stampa 18.01.11