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"Per il rientro dei cervelli il bonus non basta", di Luigi Filippini*

Al “rientro dei cervelli” è stata destinata un’ampia produzione normativa. Misure il cui esisto è finora stato incerto e deludente. Perché è importante il rientro dei cervelli? Perché lo sviluppo di un Paese dipende anche dal capitale umano esistente.
Non è facile dire quanti siano gli italiani che lavorano in università o in centri di ricerca all’estero: una stima ipotizza non meno di 20mila. Di certo, coloro che sono ritornati, anche sulla base dei provvedimenti del ministero, sono stati poche centinaia di cui la maggior parte è poi ritornata all’estero.
Le ultime disposizioni sono contenute: 1) nella legge 4 novembre 2005 n. 230; 2) nelle linee guida per il 2005 del decreto ministeriale n. 18/2005; 3) nel Programma per Giovani Ricercatori “Rita Levi Montalcini” del 2009. Anche la legge di riforma dell’università (la legge Gelmini) tratta ampiamente il tema.
La prima norma prevede la chiamata diretta come professore di prima o seconda fascia di studiosi italiani impegnati all’estero, che abbiano conseguito una posizione accademica di pari livello: un cervello torna stabilmente: cioè, entra nei ruoli della docenza universitaria italiana. Anche la legge Gelmini prevede tale possibilità.
Con un apposito finanziamento, la seconda norma permette a ricercatori con attività stabile all’estero da almeno tre anni di ottenere un contratto a termine (rinnovabile entro stretti limiti) con un’università italiana impegnandosi a un’attività continuativa, esclusiva e a tempo pieno. Inoltre questi studiosi sono tenuti a presentare una dichiarazione dell’università o istituzione di origine che attesti la loro messa in congedo o in aspettativa senza assegni per la durata del contratto.
La terza disposizione, con un finanziamento di 6 milioni di euro, offre a giovani studiosi stranieri e italiani, in possesso del titolo di dottore di ricerca o equivalente conseguito da non più di sei anni e impegnati all’estero da almeno un triennio, l’opportunità di svolgere attività di ricerca in Italia. Il compenso lordo annuo era di 40mila euro. La legge Gelmini prevede, inoltre, la possibilità che il titolare di un contratto, dopo aver conseguito l’abilitazione scientifica a professore associato, sia inquadrato in tale ruolo.

La domanda, allora, è: date norme e risorse, perché il rientro dei cervelli non ha funzionato?
A mio avviso anche per mancanza di flessibilità dello stato giuridico dei professori e dei ricercatori. Un professore o un ricercatore che ritorna è lock-in: perde il legame istituzionale con l’istituzione estera e ricade nella legislazione italiana. Se volesse continuare a fare ricerca e a insegnare all’estero, a esempio nella sua “vecchia” università, dovrebbe sottostare alla normativa esistente.
Ma la disciplina sulla compatibilità dell’insegnamento all’estero per i docenti in ruolo nelle università italiane è lacunosa e la sua applicazione risulta dall’intreccio e dalla interpretazione non semplice e univoca di una serie di norme, nessuna delle quali regola direttamente e compiutamente il problema. Si può scegliere di continuare ad assolvere i propri compiti nella università italiana di appartenenza (didattici e altri) ed essere autorizzati a svolgere attività didattiche e di ricerca all’estero. Se si chiede di essere esentati dai compiti nella università italiana di appartenenza esiste il congedo di breve durata oppure il congedo straordinario di più lunga durata. La legge Gelmini prevede ora anche un’aspettativa per un periodo di cinque anni.
È evidente la rigidità della normativa in un contesto in cui la flessibilità è premiante. La possibilità che un professore o un ricercatore facciano parte a pieno titolo di una università o di un centro di ricerca all’estero aiuta il trasferimento di conoscenze, di know how, il movimento di allievi. Cosa che allo stato attuale non è possibile. Di qui la necessità della riscrittura delle norme sullo stato giuridico, sull’incompatibilità e poi della compatibilità con il tempo pieno. In altri sistemi, per esempio Gb e Usa, questi aspetti sono superati.
Un esempio da seguire per migliorare il livello della ricerca e della didattica.

*Docente di Economia politica nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano

Il Sole 24 Ore 17.01.11