La gioventù manifesta segni di disagio sempre più vistosi. Proteste e ribellioni si alternano a ondate di violenza urbana. In Europa e oltre. Lo ha scritto Bernardo Valli nei giorni scorsi su queste pagine, per spiegare il crollo del regime in Tunisia. «le rivolte giovanili -ha scritto Valli- sono potenti detonatori che possono imporre svolte politiche». Anche, se le tensioni espresse dai giovani non rivelano tematiche comuni, espresse da componenti specifiche. Disegnano, invece, una scena composita. Più che un movimento indicano, forse, una «sindrome». Un malessere che presenta sintomi diversi di origine diversa. Con un volto comune, riconoscibile dall´età. Giovane, talora giovanissima.
Gli episodi che compongono la “sindrome giovanile” sono numerosi ed eterogenei. Per contesto, contenuto, modello di azione. Ne isoliamo alcuni, particolarmente noti.
Ci sono, anzitutto, le rivolte studentesche. Si susseguono in diversi paesi europei, con vampate improvvise. In Grecia: nel 2008, dopo la morte di un ragazzo in seguito a scontri con la polizia. Negli scorsi mesi, dopo la manovra del governo per rispondere alla crisi economica e finanziaria. Adeguandosi alle condizioni imposte dalla Ue. In Inghilterra, il mese scorso, dopo la decisione del governo di aumentare le rette nelle università, è esplosa una vera guerriglia. Decine di migliaia di studenti, fiancheggiati dai genitori, hanno trasformato gli spazi intorno alla Camera dei Comuni e a Westminster in un campo di battaglia. In Francia è da anni che gli studenti manifestano. Nel 2006: contro la legge che istituiva il «contratto di primo impiego». Nello scorso autunno: contro la riforma che eleva l´età della pensione. Si sono mobilitati in massa, in tutta la Francia. La protesta degli studenti ha investito anche la Spagna, a sostegno degli scioperi proclamati dai lavoratori contro lo stato miserevole del mercato del lavoro e i tagli della spesa sociale.
In questa chiave vanno considerate anche le manifestazioni che si sono svolte in Italia, nello scorso autunno, contro la riforma Gelmini. Promosse da studenti e ricercatori.
Ma la sindrome giovanile non ha interessato solo le scuole e gli studenti. La contrassegnano anche le rivolte che hanno incendiato (letteralmente) le banlieue di Parigi nel 2005 – e in seguito. Protagonisti: non studenti, ma adolescenti «marginali» di origine africana e maghrebina.
Infine, va considerato anche ciò che sta avvenendo in Tunisia. Dove il regime guidato da Ben Ali è crollato all´improvviso, sotto la spinta di una rivolta che ha ragioni sociali, economiche e politiche profonde. Innescata dal gesto disperato di un giovane di 26 anni, Mohammed Bouaziz, laureato in economia, ambulante occasionale. Si è dato fuoco per protestare contro il sequestro del suo banchetto di frutta e verdura. E i giovani, gli studenti costituiscono una parte importante, forse maggioritaria, della mobilitazione che si è propagata nel paese. Contagiando la vicina Algeria, trascinata, anche lì, dai giovani.
Contesti diversi, motivi diversi, obiettivi diversi. Una comune connotazione generazionale. Marcata da problemi comuni.
La disoccupazione, anzitutto. Colpisce il 40% dei giovani (15-24 anni) in Spagna, il 20% nella zona di Parigi, il 25% in quella di Londra. E il 29% in Italia, ma 10 punti percentuali in più nel Mezzogiorno. In Tunisia – rammentava ancora Bernardo Valli – il 72% dei disoccupati ha meno di 29 anni. In Marocco: il 62%. In Algeria: il 75%. Dovunque, per i giovani, è divenuta normale la precarietà. In Italia, più di 2 milioni di giovani non studiano e non lavorano (dati Istat). Stanno lì, ai margini, ad attendere che qualcosa succeda. E intanto fanno lavori e lavoretti informali, oltre che temporanei. Si dice, con un po´ di retorica, che i giovani sono vittime di un «furto del futuro». Vero, ma non basta. Occorre aggiungere che il loro futuro è pesantemente consumato dal presente. La disoccupazione e la precarietà di oggi: appaiono senza fine. In-finite. Peraltro, la società, la politica, gli adulti: non offrono più modelli, né riferimenti. I sistemi di valore, le organizzazioni di rappresentanza politica, per primi i partiti. Sono in crisi. Prevalgono, invece, le logiche del marketing, dei media. Che schiacciano l´orizzonte sul presente. Anzi, sul “quotidiano”. Così si affermano sentimenti di sfiducia e delusione. Oppure, all´opposto, si diffondono le proposte fondamentaliste. Perché danno significato al malessere, alla protesta. Ma anche alla domanda di identità e di riconoscimento.
A questa sindrome contribuisce l´insofferenza verso la riduzione dell´intervento pubblico, in particolare – ma non solo – nella scuola e nell´università. I giovani temono il declino dello Stato previdenziale e provvidenziale – e, dunque, l´indebolirsi – ulteriore -delle garanzie per il “loro” futuro. Difficile spiegare loro che i tagli e le riforme servono a rimediare ai danni prodotti dai più anziani. Difficile chiedere loro di farsi carico della competizione globale. Di pensare in chiave futura, se il futuro – per loro – non esiste più. È stato abolito. Da qui la differenza da altre, precedenti, ondate di protesta. Il Sessantotto, in particolare. Era un movimento anti-autoritario. Progettuale. Oggi invece la protesta giovanile riflette uno stato di necessità. Anche in Italia, dove solo il 10% della popolazione ha tra 15 e 24 anni (in Tunisia è il 25%). La loro protesta è una forma di legittima difesa. Serve a rivelare al mondo che esistono. D´altronde, i giovani italiani sono largamente a-ideologici. Comunque, più a destra dei loro genitori (socializzati intorno al Sessantotto). Non credono nei partiti e neanche nel Parlamento. Sono presidenzialisti. D´altronde, sono cresciuti nell´era di B., della Lega e dei partiti personali. Comunisti e democristiani, per loro, sono parole in-significanti. Quando sono nati, il muro di Berlino era già caduto. Oppure era lì lì per crollare. Sono i ragazzi della Seconda Repubblica. Una generazione im-mediata. Ancora poco auto-consapevole. Non crede alle mediazioni ed è abituata a fare i conti con il presente immediato. Questi giovani, sono reattivi, pronti a sperimentare vecchie e nuove forme di partecipazione. Le loro famiglie: li tutelano, ma, al tempo stesso, li mantengono in libertà vigilata. Una condizione – in apparenza – comoda. In realtà, frustrante e sempre più difficile da sopportare. A (da) cui i giovani sperano di (s)fuggire. Prima o poi esploderanno anche loro.
La Repubblica 17.01.11