Così è stata tradita la legalità promessa dai padri della Repubblica. Dal nuovo libro di Michele Ainis sulla Costituzione e i suoi nemici. Si intitola L’assedio, sottotitolo La Costituzione e i suoi nemici, il nuovo libro di Michele Ainis in uscita il 20 gennaio per Longanesi di cui qui anticipiamo un brano. Costituzionalista all’Università «Roma Tre», editorialista della Stampa, nel suo pamphlet Ainis riconduce la crisi di legalità in cui è immersa l’Italia al rapporto truffaldino che la politica, a destra come a sinistra, intrattiene con la Costituzione. Come potremmo prendere sul serio le leggi in vigore, quando la legge più alta viene costantemente vilipesa?
La riforma della giustizia è attesa da quasi settant’anni (le norme in vigore risalgono al 1942). Per mettere pace fra giudici e politici dovremo forse aspettarne altri settanta. Ma i guai della magistratura non si esauriscono nei ceffoni quotidiani dispensati da Silvio Berlusconi alla Procura di Milano. E neppure nella difesa a spada tratta dei colleghi di governo finiti sotto inchiesta (da Brancher a Cosentino), tutti vittime a suo dire d’un furore giacobino, di giudici (come sbagliarsi?) «comunisti». No, l’insulto più violento, quello che fa più male, è l’insulto all’efficienza del sistema giudiziario. Perché la giustizia italiana è una lumaca, e lo sappiamo; e perché l’idea del processo breve – tirata fuori nel 2009 dal governo Berlusconi – servirebbe soltanto ad ammazzare la lumaca. Due anni e basta per ogni grado di giudizio; altrimenti tutti a casa, niente assoluzione né condanna. E perché non due giorni? Se bastasse dirlo in una legge che ogni uomo dev’essere sano come un pesce, i medici sarebbero costretti a cercarsi un altro mestiere.
Non c’è dubbio tuttavia che la lentezza dei processi mina la credibilità del potere giudiziario, oltre a svuotare i diritti dei quali sulla carta (quella costituzionale) saremmo titolari. «Justice delayed, justice denied» (giustizia tardiva, giustizia negata), scrive in una sentenza del 1999 la Corte Suprema degli Stati Uniti. E infatti nel luglio 2009 Bernard Madoff, artefice d’una truffa miliardaria ai danni dei risparmiatori americani, è stato condannato a 150 anni di reclusione dopo un processo concluso nell’arco di sei mesi. In Italia non potrebbe mai accadere, sia perché da noi la truffa è punita con una pena pecuniaria e con la reclusione fino a un massimo di nove anni, sia perché da queste parti il processo ha tempi, come dire?, un po’ più comodi. Tanto che il giudizio sul crack Parmalat si è protratto per sessanta mesi, e quello sul crack Cirio ancora più a lungo.
Ma che cosa ci rende così diversi dai nostri cugini d’Oltreoceano? E quanto è grave la malattia della giustizia italiana, anche rispetto allo stato di salute dei sistemi europei? D’altronde una malattia deve pur esserci, se è vero che la Banca Mondiale – nel rapporto Doing Business 2009 – in tema di giustizia civile classifica l’Italia al 156° posto su 181 Paesi (dopo Angola, Gabon, Guinea e Saõ Tomé), mentre quasi tutti gli Stati europei sono fra i primi cinquanta: Germania al nono posto, Francia al decimo, Regno Unito al 24°, Spagna al 54°. […]
Sta in queste cifre, nella fredda contabilità dei numeri, il tradimento della legalità promessa dai nostri padri fondatori. Sicché l’Italia è diventata una palude, uno stagno d’acque limacciose nel quale siamo immersi fino al collo. Scorri le cronache che incalzano giorno dopo giorno, e t’accorgi che nessun ceto sociale, nessuna categoria professionale è fuori dalla melma. Ci trovi dentro il poliziotto e il giudice, l’imprenditore e il generale, il direttore della Asl così come il prefetto, il banchiere e il professore. E ovviamente il politico di turno, con le sue mani rapaci. Tutti affaccendati in faccende deplorevoli ma ben retribuite, e infatti il faccendiere ormai incarna il mestiere con la più numerosa schiera di seguaci.
Ma senza una giustizia che funzioni non verremo mai fuori dalla nostra palude collettiva. Nessun rivolgimento sociale o culturale avrà gambe per correre se la magistratura è a sua volta azzoppata, se non può più somministrare i torti e le ragioni. Difatti non è vero, non è affatto vero che l’Italia spenda poco per il suo apparato giudiziario. Però spende male, dilapida quattrini in un’organizzazione elefantiaca, che avrebbe bisogno d’una robusta cura dimagrante. E spende una miseria per i poveri, che a conti fatti sono anche i più penalizzati dall’inefficienza del sistema. Lo dimostra il doppio record circa la cifra destinata al patrocinio legale gratuito (la più bassa in Europa), nonché circa il costo dei processi (il più alto d’Europa). Insomma una giustizia forte con i deboli, debole con i forti. Ne sa qualcosa il detenuto curdo cui nel gennaio 2009 la magistratura di Trieste ha inflitto una multa di 25 euro: aveva tentato d’impiccarsi riducendo a striscioline due federe, e quindi distruggendo un bene pubblico […]
In questa malattia degenerativa gioca anzitutto una componente culturale, che ha trasformato il modo con cui i giudici vivono la propria funzione, la propria stessa indipendenza. Durante l’Ottocento quest’ultima era legata all’idea di leggi certe e chiare, applicabili senza spirito di parte; oggi sappiamo tuttavia che la discrezionalità interpretativa è un momento insopprimibile di ogni decisione giudiziaria, tanto più in un ordinamento permeato da valori elastici e plurali come quelli scolpiti nella Costituzione. L’indipendenza dei giudici si è così tradotta nella salvaguardia della loro libertà ideologica, che a sua volta giustifica e sorregge il correntismo della magistratura. Ma se la premessa è esatta, la conseguenza viceversa è errata. Il fatto che il nostro ordinamento costituzionale sia aperto al pluralismo politico non significa che il pluralismo debba poi abitare anche all’interno della cittadella giudiziaria. Tanto più quando la militanza correntizia finisce per tradursi in militanza politica tout-court, o quando la notorietà acquisita per le inchieste fa guadagnare ai giudici un seggio in Parlamento. In questi casi il meno che possono pensare i cittadini è che gli stessi giudici fossero già schierati mentre indossavano la toga, prima che Montecitorio gli schiudesse i battenti.
Si può allora domandare alla magistratura italiana di tenersi fuori dalla mischia, di non appannare la propria indipendenza saltando dai palazzi di giustizia a quelli del governo? È una richiesta difficile, perché incide sui diritti costituzionali che spettano a ogni cittadino: sarebbe come dire che i ricchi devono star fuori dal Palazzo, introducendo un limite di censo alla rovescia. Ma in generale c’è sempre un che di stonato quando l’arbitro si trasforma in giocatore. Quando succede per esempio che il giudice Di Pietro interroghi (nel 1992) Romano Prodi, per poi sedergli accanto in Consiglio dei ministri. Episodi del genere offuscano la credibilità del corpo giudiziario, e in questo senso provocano il medesimo disagio cui talvolta ci costringono i santoni dell’informazione, quando ce li ritroviamo sui manifesti elettorali.
La Stampa 16.01.11
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