L’ex presidente delle comunità ebraiche italiane:
«Provo rabbia e indignazione per i nomi sul sito neonazista ma non sorpresa. Le radici del razzismo sono ancora forti». Il monito. «Da tempo sollecito l’opinione pubblica a non considerare la Shoah come memoria di un oscuro passato». I ricordi. «Ero piccolo quando passavano le camicie brune e si diceva: in Italia non può accadere nulla di terribile». Rabbia. Dolore. Inquietudine. Tutto, tranne che sorpresa. Perché non smetterò mai di denunciare che le radici politiche, storiche e culturali dell’antisemitismo continuano ad esistere e a ramificare». Ad affermarlo è una delle figure più autorevoli e rappresentative dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. (Ucei). Professor Luzzatto, a cosa è improntata la sua prima reazione alla notizia del sito neonazista statunitense che ha pubblicato una lista di ebrei italiani?
«Rabbia. Indignazione. Inquietudine. Tutto ma non sorpresa. Da molto tempo sollecito l’opinione pubblica, in particolare in questi giorni in cui si ricorda la Shoah, a non comportarsi come se si trattasse della memoria di un oscuro passato che si è totalmente dileguato. Ritengo e ripeto che le radici politiche, storiche e culturali dell’antisemitismo continuano ad esistere e a ramificare, a volte, ma non sempre, sotto mentite sembianze. Per questo motivo, e soprattutto perché ogni ripresa di ideologie razziste rappresenta un pericolo effettivo per lo sviluppo di una democrazia di civile convivenza, mi sono permesso, anche di recente, forse con un tanto di provocazione, di affermare in pubblico che non mi dispiacerebbe di cambiare il nome della Giornata della Memoria in Giornata per la vigilanza in difesa della democrazia».
Il mondo politico si è trovato unito nel condannare questo atto. Ma bastano le parole di condanna?
«No, non possono bastare. E, a mio avviso, non bastano neppure atti estemporanei per educare i giovani a condannare queste manifestazioni. Credo invece che dobbiamo costruire assieme una cultura di convivenza fattiva fra lingue, tradizioni, religioni diverse; una convivenza che si nutra della curiosità nei confronti dell’altro, come di mondi a noi apparentati che non conosciamo sul serio e per i quali la conoscenza puntuale sarebbe certamente un arricchimento per tutti».
C’è nell’opinione pubblica una sufficiente consapevolezza di quanto da Lei denunciato? «Una consapevolezza matura e completa direi di no, anche perché in caso contrario sarebbe difficile spiegarsi questi periodici ritorni di fiamma del razzismo, dell’antisemitismo, del rifiuto delle culture altrui». Lei, per età e per l’impegno di una vita, rappresenta la memoria storica di ciò che le «liste» hanno rappresentato per il popolo ebraico. Sul piano personale, cosa ha significato per Lei, vedere di nuovo una lista di ebrei da colpire?
«In quei terribili anni ero un bambino, ma ricordo bene quando, indicando le prime camicie brune con la svastica che giravano per l’Italia, tanta gente diceva: fanno cose terribili a casa loro ma qui da noi non può succedere. E invece…».
In precedenza, Lei ha fatto riferimento all’antisemitismo mascherato in forme nuove. Qual è quella che teme di più, la più insidiosa?
«Ce ne è una che più delle altre può avere influenza. Ed è la trasformazione delle critiche al Governo israeliano che come tutti gli altri governi al mondo può essere sottoposto a critiche, come a elogi in un giudizio sostanzialmente negativo di tutti gli ebrei del mondo e di tutte le epoche, usando la polemica politica come uno strumento di attacco indiscriminato e generalizzato che trasforma la polemica politica in attacco razzistico». In precedenza, Lei ha segnalato l’importanza di un lavoro sui giovani. Cominciando da dove? «Cominciando dalla scuola e dall’ insegnamento della storia che deve unire in una sintesi gli eventi passati con la conoscenza critica e approfondita del presente, dei suoi problemi e delle sue difficoltà».
Il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria. Qual è a suo avviso il modo migliore per ricordare? «Posso dirle qual è il mio modo di farlo: quando uscendo dall’Italia, nel 1939, pur adolescente, avevo la netta sensazione di lasciare un Paese dove ero nato e al quale ero legato, ma che si stava trasformando in un vulcano in eruzione. Non potevo certamente prevedere nei dettagli quello che avrebbero portato gli anni successivi. Devo aggiungere che mi trovavo a Tel Aviv alla fine dell’estate dell’anno successivo e nel momento dell’improvviso bombardamento terroristico degli aerei italiani, nel quale per poco non sono rimasto vittima, ebbi finalmente la chiara, irrevocabile certezza di essere diventato un nemico da sopprimere per il mio stesso Paese natale. Gli anni successivi furono molto peggiori. Per via indiretta, venni a sapere che buona parte dei miei familiari, tra cui due vecchie zie, erano stati deportati nei campi di sterminio nazisti. Della maggior parte di loro non ho più saputo nulla, scomparsi, come se fossero stati inghiottiti…Soltanto dopo la fine della guerra ho incontrato di nuovo i pochi superstiti, in particolare due mie prime cugine sopravvissute ad Auschwitz. Una vive a Venezia, e ho la fortuna di poter condividere con lei ciò che resta della nostra vita».
L’Unità 13.01.11