In queste ore Gianni Alemanno, dopo decine di estenuanti incontri, è rimasto solo a decidere sulla nuova giunta, dopo l´azzeramento delle deleghe. Chiuso nell´ufficio del Campidoglio, affacciato sulla più suggestiva vista di Roma, la maestà dei Fori Imperiali illuminati, che ricorda a ogni sindaco come la città eterna sopravvivrà anche a lui. Roma resisterà anche al sindaco marziano e alla banda di alieni andati al potere nella Capitale tre primavere fa, fra la sorpresa generale e soprattutto di loro stessi. Gli ex ragazzi del Fronte della Gioventù degli anni Ottanta, amici di scuola, di lotta, di carcere, quindi amici di sempre. Un manipolo, una banda di quartiere, una curva di ultras della politica, cui il potere ha dato alla testa fin dal primo giorno. Quando, non sapendo come altrimenti festeggiare, nella piazza del Campidoglio hanno fatto scattare in automatico il braccio teso, come piccoli dottori Stranamore, in un saluto romano finito sulle prime pagine di mezzo mondo.
Questa è per metà la loro storia, quella di una generazione di ex ragazzi dell´estrema destra romana che realizza il sogno di una vita, strappare la Capitale ai “rossi”, e ne rimane travolta. Per l´altra metà è la cronaca della guerra finale nel centrodestra, non più fra Berlusconi e Fini, ma fra il Cavaliere e Tremonti, ormai venuto allo scoperto per la successione. Due vicende parallele, ma separate nei personaggi e nei luoghi. La prima corre frenetica, in una gozzoviglia euforica da potere, nei saloni del Campidoglio e nelle sedi delle società controllate, l´Atac, azienda dei trasporti, l´Ama dei rifiuti, l´Acea di acqua ed elettricità, Risorse per Roma. I forzieri del consenso che gli ex ragazzi del Fronte hanno occupato militarmente, circondati dai propri cari, sul modello, come dicono alcuni ex camerati schifati «di una Comunione e Liberazione de´ noantri». La partita nazionale si gioca invece nel trilatero dei palazzi della politica, Palazzo Chigi, Montecitorio e il più importante di tutti, visti i tempi, Palazzo Grazioli.
Cominciamo dalla seconda storia, la meno raccontata, la più importante per il resto d´Italia. Berlusconi e Tremonti sono alla resa dei conti e il comune di Roma è diventato in queste ore l´epicentro del conflitto. Perché Gianni Alemanno, prima ancora che di un rimpasto, di una svolta che porti fuori il comune dalla parentopoli raccontata da Giovanna Vitale su Repubblica e lui dalla caduta libera di consensi, ha bisogno anzitutto di una cosa: soldi. Tanti, maledetti e subito. In tre anni di finanza allegra il comune s´è mangiato il regalone ricevuto dal governo nell´aprile del 2008 con i decreti di Roma Capitale ed è di nuovo sull´orlo del baratro. Mancano i fondi per riparare le strade, per le mense scolastiche, l´assistenza agli anziani, la raccolta dei rifiuti che cominciano a crescere agli angoli delle vie. Il Campidoglio continua a emettere obbligazioni, che hanno ormai sfondato il tetto dei tre miliardi. E qualcuno ricorda che al comune di Milano, per aver emesso un miliardo e duecento milioni di obbligazioni, sono arrivati ventiquattro avvisi di garanzia. L´incubo del crac, del default, insomma del fallimento è alle porte. Se non arriva una pioggia di milioni dal governo nei prossimi giorni, la capitale rischia di finire come Napoli. Ma Tremonti è ben deciso a chiudere i cordoni della borsa. Sostenuto dalla Lega, da Bossi e Maroni che si sentono già in campagna elettorale e inorridiscono al pensiero di presentarsi alle genti padane dopo aver votato un altro provvedimento eccezionale a favore di Roma ladrona. Berlusconi, furibondo, ripete ogni giorno a Tremonti che «non possiamo mollare Alemanno», gli fa mandare avvertimenti dal Giornale a «non fare il Fini». Tremonti prende tempo, finge di aspettare le scelte di Alemanno. Ha fatto sapere che se il sindaco decidesse di sostituire i camerati con una squadra di tecnici, ci potrebbe ripensare. In realtà il ministro sa già che la montagna di Alemanno partorirà domani il topolino di un mini rimpasto, un valzerino di poltrone. L´azzeramento è soltanto una mossa mediatica per giocare il ruolo del sindaco onesto tradito da qualche mariuolo.
Del resto, come potrebbe Gianni Alemanno darla vinta a Tremonti, che ha sempre cordialmente detestato, e mollare i suoi fedelissimi? Camerati che sbagliano, certo. Ma pur sempre camerati. E torniamo a quel giorno di primavera, alle braccia levate nel saluto. In piazza a festeggiare c´era lo stato maggiore di Alemanno, il manipolo schierato come nella formazione classica a testuggine, con in capo gli ardimentosi luogotenenti, il deputato Fabio Rampelli e il senatore Andrea Augello. Rampelli, ex responsabile del servizio d´ordine del Fronte della Gioventù, campione di nuoto e ora di risse parlamentari, capo della setta evoliana dei Gabbiani, pare ancora attiva dalle parti di Colle Oppio, dove si riuniva per inscenare riti esoterici che avrebbe fatto la gioia del Corrado Guzzanti di “Fascisti su Marte”. E´ laureato in architettura ed è un po´ l´Albert Speer di Alemanno, quello che suggerisce le sparate marinettiane tipo abbattere con la dinamite Tor Bella Monaca e il Corviale. Odia i lavori di Meyer e Renzo Piano. Non ha mai digerito la restituzione della stele di Axum agli etiopi e la sconfitta di El Alamein, che commemora ogni anno come vi avesse preso parte. Andrea Augello, un po´ meno pittoresco, ex sindacalista nero, gran motore di consensi anche per Storace prima e la Polverini poi, esperto di storia del Sacro Graal e più pragmaticamente di bilanci delle controllate. E´ l´uomo che governa l´affarone del secolo, la privatizzazione del colosso Acea, il gioiello e la cassaforte del comune, quotata in Borsa. Veltroni voleva farne una joint venture con la francese Suez. Nei tre anni di Alemanno il primo socio privato è diventato, guarda caso, il gruppo Caltagirone. Alla faccia dello slogan «basta coi poteri forti cittadini». Nella seconda fila, in rigoroso ordine gerarchico, venivano gli altri. A cominciare dal naziskin Stefano Andrini, già condannato a quattro anni e mezzo per aver ridotto in fin di vita due giovani di sinistra davanti al cinema Capranica, futuro amministratore delegato dell´Ama, la nettezza urbana. Per finire con gli adepti dell´ultima ora, come Adalberto Bertucci, ex amministratore delegato dell´Atac, l´azienda dei trasporti, dove è riuscito nell´impresa di aumentare il debito di 180 milioni in un anno solo, anche grazie al diluvio di assunzioni da scioglilingua. Sentite: il figlio, il genero, il nipote, la cognata del figlio, l´ex segretaria, suo figlio e sua nuora, la figlia della segretaria del figlio, più una ventina di parenti di assessori e consiglieri, e dulcis in fundo, la famosa cubista scovata dalle Iene.
La picaresche avventure di potere della banda prenderebbero molte pagine. Alemanno s´è difeso con il vecchio alibi dei “mariuoli”. Chi lo conosce bene dice: «Di suo, Gianni non ruberebbe mai, però ha lasciato nutrire la bestia». La corruzione certo non l´hanno inventata loro, ma stupisce che gli ex camerati, fanatici ma fondamentalmente onesti, si siano adattati così presto ai costumi della peggior politica. Che siano passati tanto in fretta dall´ideologia di Rauti ed Evola al magistero di Vittorio Sbardella. Il fascista che incontra Andreotti, rimane fascista dentro, ma si finge convertito alla democrazia per sguazzare da squalo nelle acque del sottogoverno. In questo crollo di valori, per quanto sbagliati, l´appartenenza al clan, al gruppo, alla famiglia, è rimasto l´ultimo collante identitario. Proiettato verso l´ambizione di fare il grande leader nazionale, Alemanno ha compiuto mille giravolte, da neo pagano a papalino, da fascista “sociale” e “di sinistra” a gran protettore dei poteri forti, da paladino di una destra “non berlusconiana” a berlusconiano di ferro. E ha lasciato che i camerati si consolassero con le prebende: «E´ costretto a dire bene di froci, zingari ed ebrei, ma intanto lo vedi quanti posti ha dato ai nostri?». Pensava in questo modo, il sindaco marziano, di tenerli a bada, come un eccentrico signore che giri con una pantera al guinzaglio. Ora è lui il prigioniero, nell´ufficio del Campidoglio, al cospetto di troppa grandezza e di un sogno fallito.
La Repubblica 112.01.11