Gianni Amelio “Perdita enorme, c’era tanto bisogno del suo sguardo lucido sulla realtà”
MARCO TULLIO GIORDANA
“Guardava il progetto non il risultato finale”. «Lietta Tornabuoni – dice il regista Marco Tullio Giordana – mi piaceva come critico e come persona e non perché sia sempre stata indulgente verso di me: ma era generosa, guardava il progetto, non solo il risultato. Apprezzavo il suo rigore e i suoi modi educati e allo stesso tempo bruschi. Leggevo tutto quello che scriveva: non seguiva le mode, aveva sempre un’opinione personale. La mia prima intervista l’ho fatta con lei. Avevo 28 anni ero sorpreso che una giornalista così importante dedicasse attenzione a un debuttante. L’anno dopo presentai La caduta degli angeli ribelli: il film fu molto criticato, lei ebbe parole di conforto, mi disse che avrei avuto una lunga carriera e che l’insuccesso a volte può far bene. Fu amichevole come una sorella maggiore. Il mio film che preferiva è Pasolini, un delitto italiano. Nel 1975 si era a lungo occupata del caso e mi disse una frase molto intelligente: la morte di Pasolini è il trionfo del luogo comune. Intendeva dire che che per noi italiani l’omosessuale non può che avere una morte violenta».
PAOLO E VITTORIO TAVIANI
“Ci provocava sempre con passione”
«Proviamo un grande dolore per l’amica che oggi non troveremo più» dicono i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, che con Lietta hanno condiviso molte esperienze cinematografiche e giornalistiche (la loro carriera è iniziata proprio con la scrittura per poi approdare al cinema nel 1960 con il documentario L’Italia non è un paese povero). «Quella di Lietta – dicono – è la perdita di un’intellettuale che con il suo lavoro critico da decenni è stata protagonista – al pari di registi sceneggiatori, creativi di film – del cammino del nostro cinema. Quando è stato grande lo ha arricchito con scienza e fantasia, quando si è impoverito lo ha provocato con passione perché ritrovasse se stesso. Anche per questo siamo in tanti ad averti amato, Lietta».
GIANNI AMELIO
“C’era tanto bisogno del suo sguardo lucido”
«Per me la perdita è enorme – dice Gianni Amelio, regista e direttore del Torino Film Festival -: non è solo una perdita per la critica cinematografica ma soprattutto la perdita umana di una persona straordinaria con una mente così lucida, in un momento storico in cui ce ne sarebbe tanto bisogno. Lietta era una grandissima giornalista, mi mancherà quello che sapeva e scriveva del nostro Paese».
Amelio ricorda ancora «che una volta con me si era quasi adombrata perché le avevo detto che quasi quasi ero più ansioso di leggerla nella sua rubrica “Persone” del giovedì che nelle critiche cinematografiche. “Vuoi dire che non sono brava a scrivere di cinema?” mi chiese lei. “No – le risposi – è che sei talmente lucida su cose molto più drammatiche e molto più importanti dei film: oltre a capire il cinema tu capisci la realtà, sei una giornalista a tutto tondo”. La traccia che Lietta ha lasciato nelle nostre vite è profonda, oggi quel che resta è davvero un grande vuoto».
PUPI AVATI
“Ci ha insegnato a non desistere mai”
«Con la morte di Lietta – dice Pupi Avati – se ne va uno degli ultimi grandi critici cinematografici del nostro paese. Quando finivo un film io chiamavo Stefano Reggiani, Cosulich , Tullio Kezich e lei e lo mostravo a loro prima che agli altri. Il loro giudizio mi bastava, se ero promosso da questa commissione mi sentivo in pace con me stesso. Oggi la critica conta pochissimo e contano molto di più gli incassi, per anni è stato diverso. Per noi che abbiamo cominciato a far cinema tra la fine dei 60 e i primi 70 Lietta è stata un punto di riferimento, non ci ha mai dissuaso facendoci però capire quello che non funzionava. Ci ha insegnato a non desistere mai e questo ci ha regalato una grande forza: anche nei momenti in cui non era convinta della nostra opera, con il suo sguardo ampio e ci segnalava un percorso. Arrivava sempre mezz’ora prima alle proiezioni, mostrando quanto rispetto avesse per il nostro lavoro, ben diversamente dall’ultima generazione che ci guarda con prevenzione e strafottenza».
La Stampa 12.01.11
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“Addio alla Tornabuoni, aveva 79 anni. Firma della Stampa, ha raccontato i grandi eventi della storia mondiale e le più appassionanti vicende locali”, di LUIGI LA SPINA
Lei, camminava veloce in quel mattino romano di primavera.
Uno strano silenzio cingeva di stupore e di angoscia il cuore della città blindata e solo il rumore ritmico dei tacchi, sui sanpietrini di via di Sant’Ignazio, sembrava accompagnare i battiti dell’emozione.
Io, giovane cronista, conscio di dover affrontare un avvenimento troppo più grande della mia inesperienza, mi affrettavo a accompagnarla verso quella via Caetani dove ci aspettava il compimento di una grande tragedia di Stato e, insieme, la fine della speranza che un uomo potesse sfuggire alla sua trappola di morte. Pochi minuti prima, la radio aveva annunciato il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, ristretto dentro il baule di una Renault rossa. Le mie domande, stupide e inopportune come quelle che si affollano in un cervello sopraffatto dalla trepidazione, piovevano addosso a lei senza scalfirla minimamente. Muta, le labbre strette a mangiarsi l’immancabile rossetto, unica spia della civettuola vanità di una bella e consapevole donna, ficcava i suoi scuri e penetranti occhi sulle facce degli spettatori di quella terribile scena, sui rosati palazzi della Roma barocca che faceva da quinta a quel teatro dell’orrore. Io, concentravo l’attenzione sulla vittima, come se quel corpo martoriato potesse suggerire il significato di una vicenda assurda. Lei, registrava nella sua implacabile memoria i sentimenti di smarrimento dei poliziotti, dei politici, dei curiosi che si affollavano intorno. Finalmente, lei rispose al mio sguardo interrogativo e perplesso, quasi con un mezzo sorriso di affettuosa comprensione: «Sai, nel nostro mestiere quello che fa la differenza sono i dettagli».
Lietta, come tutti la chiamavano perché la celebrità le aveva sottratto il cognome, ha dedicato tutta la vita a questo mestiere, di cui era maestra solo con l’esempio di un morboso e gioioso attaccamento. In realtà, non aveva scelto il giornalismo, ma aveva semplicemente riconosciuto e accettato il destino di una straordinaria vocazione. Come quella di una chiamata religiosa, quella che ti sceglie perché ti dona tutte le qualità degli eletti, ma che ti chiede il sacrificio di ogni alternativa e ti preclude persino la libertà di un rifiuto.
Dai settimanali femminili, dove aveva cominciato la professione, era passata ai più grandi quotidiani del secondo dopoguerra, La Stampa e il Corriere della Sera, in virtù di una meravigliosa scrittura e di una eccezionale intelligenza e curiosità per le persone. Ecco perché, quando le fu affidata una rubrica, volle intitolarla proprio «Persone», riconoscendo nelle storie degli uomini e delle donne del suo tempo la cifra fondamentale non solo del suo giornalismo, ma del giornalismo di ogni tempo. Così, la seconda metà del secolo scorso la vide raccontare i più grandi avvenimenti della storia mondiale e le più appassionanti vicende della storia locale, con lo stesso metodo, infallibile strumento di seduzione per il lettore, quello che parte dall’umanità dei protagonisti per arrivare al significato dell’avvenimento.
Il fascino dei suoi racconti di allora, indifferentemente dedicati alla tragedia delle Olimpiadi di Monaco o del caso Moro, come ai ritratti, scolpiti nell’ironia, dei nostri politici, era legato innanzi tutto alla lettura di una lingua bellissima. Un italiano che risentiva di una aristocratica educazione e di quella calviniana leggerezza che soprattutto i toscani colti possiedono. Una lezione che nei giornali d’oggi, spesso così approssimativi e confusi nella scansione del ragionamento, dovrebbe essere materia di obbligato studio. I suoi aggettivi non sopportavano sinonimi e le sue parole erano rigorose come il suo carattere. Lietta odiava specialmente la sciatteria, la prolissità, l’imprecisione, sia nel linguaggio sia nella scrittura. Una serietà che applicava nella preparazione ossessiva dei suoi incontri di lavoro. Ore di studio sui personaggi che doveva intervistare, pagine e pagine di letture sulle storie che doveva raccontare, magari in poche righe.
Tutti i colleghi che hanno avuto la fortuna di lavorare con Lietta ricordano, con un certo imbarazzo, i momenti dell’esame mattutino. Lei, alle sette, aveva letto tutti i giornali e il suo interrogatorio sui fatti del giorno era spietato, perché non ammetteva distrazioni notturne, debolezze antimeridiane, crolli di pressione troppo basse. Ma i rimproveri impliciti dei suoi mobilissimi occhi duravano poco e si scioglievano presto nell’espressione più bella del suo largo viso: il sorriso contagioso per l’avventura professionale che la giornata doveva riservarle.
Sì, perché il lavoro del giornalista era, per lei, soprattutto gioia, quel soprassalto di curiosità appagata che le faceva scoprire il lato meno conosciuto e magari più interessante di un protagonista dei nostri giorni o di una storia dimenticata. E il successo professionale, di cui era pure consapevole, non oscurava quel brivido di dubbio, di incertezza, di tremore che assale ognuno di noi quando affronta una pagina bianca o uno schermo vuoto. Così la sua apparente sicurezza tradiva, per chi la conosceva bene, il rovello segreto di chi sa di dover superare sempre una prova inedita, per la quale un passato pure brillantissimo non è mai garanzia di un futuro altrettanto sicuro. Ma quella sfida, che si rinnovava ogni giorno e che trovava ormai solo lei giudice inesorabile di se stessa, era ragione di vita e di consolazione per un destino privato difficile che tormentò i suoi ultimi anni.
Con una signorile e austera discrezione, infatti, Lietta affiancò alla sua attività giornalistica la cura, dolce e attenta, dei suoi cari, dal compagno Oreste del Buono al fratello, ammalato gravemente di cuore, alla sua longeva madre. Un sacrificio, sopportato con il solito ostinato senso del dovere e che riuscì a compiere senza mai compromettere il suo lavoro giornalistico. Dopo la scomparsa dei suoi affetti più forti, Lietta passò gli ultimi anni senza più persone da accudire, ma forse senza più la forza e la voglia di accudire a se stessa. Il riserbo e l’orgoglio le impedirono di manifestare in pubblico il cruccio di aver sacrificato la sua vita al giornalismo e alla sua famiglia di origine, senza aver provato la gioia della maternità. Un giorno, davanti alla culla di un neonato, figlio di un amico, scoppiò in un pianto disperato e sorprendente per un carattere riservato come il suo. Forse era il dubbio dell’ipotesi di una vita diversa. Ma anche lei sapeva che non le era stata data quella alternativa a una vocazione assoluta, alla quale si poteva solo obbedire senza rimpianti.
Cara Lietta, tutti noi, colleghi qualche volta intimiditi dal tuo esempio troppo impegnativo, qualche volta invidiosi del dono di una scrittura così lucida e brillante, qualche volta intimoriti in attesa del tuo giudizio, ti abbiamo voluto bene. Assieme ai tuoi lettori, adesso che ci manchi, vedrai che saremo capaci di volertene un po’ di più.
La Stampa 12.01.11